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LE CONFESSIONI DI NOA WEBER
Romanzo interessante seppure non privo di difetti Le confessioni di Noa Weber,esordio sulla scena italiana di Gail Hareven, appena uscito per i tipi di Giuntina. Sentimenti e trepidazioni dispiegate con scioltezza di spirito (di chi li ha metabolizzati con franchezza), dunque un certo grado di onestà e caparbia presunzione nelle faccende amorose; e ancora, acume analitico a tratti capzioso che non sfigurerebbe nel campionario allestito dal discorso amoroso dell’indimenticato Barthes: direi che sono questi i talenti esibiti nel libro della scrittrice, polemista e storica del femminismo nata in Israele nel 1959.
Spingendo sul pedale di uno humour che non ha nulla della vacua leggerezza della banalità, la storia raccontata in questo libro chiama l’attenzione partecipata del lettore non solo satireggiando le “donne che amano troppo” (e inveendo contro i loro uomini) che una consolidata femminista ovviamente non può tollerare, ma anche scivolando sul versante più ambiguo e letterariamente più interessante di una confessione (giusto il titolo) di quanto la libertà di muoversi e scopare a piacimento non basti a sottrarsi a una sorta di schiavitù sentimentale.
Noa Weber è ancora una ragazzina quando nell’estate del 1972 s’imbatte in Alek, un ragazzo incontrato negli ambienti artistoidi e intellettuali di Gerusalemme, giovane dall’aria sicura che la destabilizza una volta e per sempre con un semplice gesto, il dito di uno sconosciuto che la invita a seguirlo come fosse una bambina, un “movimento nonchalant che la eccita come se le si muovesse fra le gambe”. Noa ne farà il tormentatissimo amore della sua vita. E non potrebbe essere altrimenti se è vero che al momento non è nemmeno sola, avrebbe un fidanzato con cui va d’amore e d’accordo e che lascia secco con una freddezza improvvisa (in effetti narrativamente il passaggio non convince del tutto).
Noa non sa ancora che è destinata a un futuro di scrittrice, di successo per giunta; e che non le basterà una vita socialmente, sessualmente, “emancipata” – si sarebbe detto una volta, e si credeva che nella parola vi fosse il mondo, al meglio delle sue possibilità – per sfuggire al destino di innamorata cronica che l’aspetta. Non le basterà sapere (e dirlo senza fronzoli e orpelli romanticoidi, e farlo, convinta che l’uomo si ecciti sentendo l’odore di altri uomini su di lei – su questo, vorremmo dissuaderla…) che “si scopa per divertimento”. O convincersi che la retorica sentimentale è insopportabile. Né crescere, da sola, la figlia frutto di quell’amore (di lei per lui, soprattutto) organizzandone l’impianto pedagogico sulla base di un femminismo radicale e meno incerto del suo (il deficit la narratrice se lo trova da solo, il lettore forse non sarebbe d’accordo). Sarà proprio l'ossessione immarcescibile per Alex - inaccettabile per i principi ideologici della donna - a darle una paradossale possibilità di uscirne, in un certo modo, salva: vincente.
Il limite del romanzo è il troppo di elucubrazione sparso nelle trecento e passa pagine. Non di rado il lettore ha la sensazione che la voce dell’autrice empirica si sovrapponga a quella della protagonista. Che dichiari più che mostrare (a prescindere s’intende da cosa “dice”, da ciò che chiamiamo volgarmente “prese di posizione”: in letteratura son tutte buone e nessuna lo è nel momento in cui il racconto cede il passo all’enunciazione).
La sua forza sta invece nel fatto che la stessa voce debordante e un po‘ oltranzista, ideologicamente arcigna, è anche sapida di verve e ironia. Lingua e intenzioni nella traduzione di Shulim Vogelmann suonano vivaci e irridenti. Da subito. “Del tutto impossibile ormai parlare di Gerusalemme. Cioè, impossibile senza vicoli tortuosi, cortili di pietra, ciuffi di capperi e donne arabe sulla piazza del mercato. E io non ho nulla da dire sui ciuffi di capperi e i cortili di pietra e neppure ho il minimo desiderio di insaporire la mia storia con il colorito gergo di coloriti personaggi di Gerusalemme che si arricciano i baffi snocciolando favole orientali”. Peraltro, tranne alcuni brevi inserti, nel romanzo della Hareven la società israeliana resta sullo sfondo, non per disinteresse, anzi, ma perché l’esercizio di riflessione sembra esercitarsi su una modalità particolare del discorso pubblico. Quella in cui riecheggia il motto di alcuni decenni anni fa: “Il privato è politico”. Se erano bei tempi non lo so, inconclusi e brutalmente distanti, di certo.