18 lug 2012


Il sesso secondo Weininger e il pensiero reazionario


Copertina
Ora, diciamolo forte e chiaro: ci sono pensatori, scrittori, filosofi che dicono cose aberranti, o stupide, o palesemente campate per aria, eppure vantano agli occhi di molti lettori, perversi motivi di fascino. Vuoi perché scrivono da dio, vuoi per l’appeal della loro persona, vuoi perché nonostante tutto, i nuclei concettuali sui quali affiggono le loro risposte sbagliate non smettono per questo di restare problematici.Non so quale delle tre opzioni sia la più pertinente nel caso di Otto Weininger, psicologo e filosofo viennese nato nel 1880 e morto suicida nel 1903. Quest’ultimo aspetto ha il suo ruolo di sicuro: un suicidio a ventitre anni indubbiamente conferisce un’aura particolare alle intenzioni, alle motivazioni, alla pretesa di serietà di un’opera – nel caso specifico Sesso e carattere – che avrebbe potuto correre il rischio di un facile, persino comodo oblio. E invece.Si dà il caso che il corpus di pensieri in questione sia il più indigeribile per la cultura “progressista” del ‘900. Laphilosophia sexualis di Weininger è manichea come nessun’altra: un polo maschile buono, attivo, logico, l‘altro, indovinate quale, maledetto, immorale, menzognero. Le donne non possono esistere se non come completamento oggettuale del soggetto-uomo; la loro stessa vanità vi è orientata: “Le donne non vivono che pensando ad altri”; l’uomo deve farsi carico di condurre la donna a uno stato di coscienza “umana”. Essa si salva come strumento della riproduzione, ciò che solo può giustificare il mancato raggiungimento di un piano che non sia meramente sessuale. Immaginiamo il corollario di luoghi comuni negativi che facilmente chiunque potrebbe stigmatizzare e il resto è fatto. Suggerisce però Franco Rella in un vecchio saggio ora riproposto nella ristampa del libro per le Edizioni Mimesis che il fascino di Weininger sta nella sua “parola piena”, la parola della Kultur, la parola monologica, antiplurale, antimoderna (un pensiero fortissimo diremmo), che oggi sembra sedurre trasversalmente europei di tutte le latitudini angosciati e spaesati dalla crisi devastante. E dunque, ricerca di un’unità organica, impossibile, che tuttavia nel caso di Weininger non manca di sollecitare anche oggi qualche riflessione. Se accreditiamo valore a una qualche distinzione biologico e/o culturale del segno maschile e di quello femminile, non ci si può non domandare il perché del dilagare di una nauseabonda emotività che oggi passa per valore indiscutibile, tale da orientare scelte culturali, giuridiche, pedagogiche. Navigando a vista: la femminilizzazione nella scuola per esempio: ha prodotto esiti catastrofici. E ancora: un marito separato una volta che arriva davanti al giudice è un uomo morto. E la letteratura trova la quadra fra ridicolo apprezzamento della critica e del pubblico quanto più si profonde in esibizioni di dolori, sensibilità ferite, vittimismi più o meno patetici, o febbrili. Vale l’inverso: la “donna in carriera” è un maschio surrettizio cui manca il membro e per il resto ha introiettato il peggio da chi ce l’ha. E se non è difficile scorgere in certe idee di Weininger (la donna che è incapace di essere, ma diviene ciò che il soggetto uomo decide per lei) la replica della storia su una certa costola di Adamo, va ricordato che le sue considerazioni inattuali affascinarono Wittgenstein, Karl Kraus, Broch, lo stesso Freud che era il suo nemico teorico.Ma il progetto complessivo di tenere concettualmente uniti sesso e carattere non poteva non fallire, e più ancora l’approccio alla questione semita – l'altro argomento forte del libro. Vero che anche qui, per l’ebreo Weininger, come nella problematica maschile-femminile, conta la teorica polarizzazione degli elementi più che gli individui in sé: l’ebreitudine è una costituzione psichica, più che biologica, per cui si danno, secondo Weininger, ebrei più ariani degli ariani e ariani più ebrei degli ebrei…L’ebreo per Weininger è la femmina “par excellence” della popolazione mondiale, il codardo archetipo, il principale malfattore e malpensante della Zivilisation, della frantumazione plurale, dell’analisi accanita e disgregante - per esprimerci ancora nei termini nietzscheani che gli si sono superficialmente accostati, della “décadence”. Il dionisiaco che interessa Weininger, per proseguire nella serie delle risposte opinabili alle domande ineludibili, “non ride e non balla”: è quello morale che cerca “un senso dell’universo”, Kant insomma, e per questa via vischiosa, un ritorno all’ordine religioso. Difatti, l’ebreo Weininger crede di rifugiarsi nel cristianesimo protestante. Non gli sarà sufficiente, evidentemente, se deciderà presto di farla finita. Si potrebbe liquidare l’oltranza arcaica di Weininger come mera follia e morta lì; ma qualche spunto interessante invece lo cercherei. Ci si potrebbe anche chiedere perché dello specifico femminile – se ve n’è uno – debbano occuparsi solo le donne. E certe domande sono come i classici di Calvino: “non finiscono mai…” etc etc. Fine delle domande, assalto delle orde barbariche. Che l’orrore si nutre anche dell’indifferenza degli illuministi troppo fiduciosi nelle magnifiche sorti e quel che segue.

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