Prima del Viaggio in Armenia (che compì nel 1930, e fu l’ultimo da uomo libero, nove anni prima che scomparisse in un gulag) negli anni Venti del secolo scorso Osip Mandel’štam, scrittore purissimo (sbadatamente passato in secondo piano rispetto al poeta), firmò alcune prose di vertiginosa bellezza stilistica. Qui raccolte, prendono il titolo dalla prima. Il Rumore del tempo (l’editore è Adelphi) è quello della Russia a cavallo fra Otto e Novecento, restituito nella maniera laterale di un divagatore in apparenza capriccioso ma acuto come pochi, e auscultato dall’interno delle proprie vicende biografiche.
Mandel’stam, ebreo, vi era giunto piccolissimo dalla Polonia in cui era nato. La sua famiglia si fermò per un po’ a Pavlovsk, un villaggio a una trentina di chilometri da Pietroburgo. Ivi, nella sua fetida stazione sembrano racchiusi i peggiori miasmi di una Russia che non ama, la “quiete malsana, il profondo provincialismo” di quel mondo di fine secolo. Le descrizioni del futuro poeta che il regime staliniano farà morire in Siberia, sono micidiali. “L’aria umida dei parchi mucidi, l’odore delle serre marcescenti e delle rose coltivate e i miasmi del buffet, l’acre tanfo dei sigari”.
Non risparmia sarcasmi a nessuno, Mandel’stam, bambino dallo sguardo vitreo, osservatore di minuzie e dettagli rivelatori, che però è capace di impattare la bellezza, anche, e di erigervi un laicissimo altare. Affascinato da Pietroburgo, il cui centro gli appare di una magnificenza solenne, ne coglie gli aspetti razionalisti, molto compatibili col suo gusto. Gli procura uno strano sentimento che definirà di un “imperialismo infantile” (anche la scuola che frequenta è all’avanguardia; gli insegnanti dell’Istituto Tenisev diventano i suoi mentori).
Questa bellezza disciplinata, per il ragazzino un po’ superbo e fin troppo sveglio, rappresenta come un argine a difesa del caos “giudaico” che avverte nella sua famiglia – negli stessi arredi della casa, nel loro “sapore dolciastro”, nell’invadente odore della pelle conciata che dava da vivere al padre, nella stessa composizione sfrangiata della libreria domestica, “nell’artiglieria di scatoloni e ingombranti salmerie domestiche”.
Difficile trovare una concomitanza così febbrilmente esatta di sguardo e scrittura – la prosa di Mandel’stam è di una precisione abbagliante, implacabile, al limite della freddezza. Che cerca probabilmente modelli fuori dalla letteratura – utile al riguardo leggere le pagine dedicate ai concerti di Hofmann e Kubelik, esecuzioni fatte di “impervie e gelide vette di virtuosismo”.
Il volume adelphiano contiene in tutto quattro testi, ritagli di un viaggio in Crimea (“Teodosia”), una storia d’invenzione sullo sfondo della Rivoluzione d’Ottobre (“Il francobollo egiziano”) e un’ultima prosa violentemente virata contro il potere sovietico che non potrà tollerare l’esistenza di una mente così fervida, indipendente, una “memoria spinta dall’ostilità”: in questo caso con evidenti quarti di ragione. Scritta fra il ’29 e il ’30, dopo le altre, inizierà a circolare come samidzat solo quarant’anni dopo. Nel frattempo,L’Epigramma a Stalin gli sarà costato carissimo.