IL FIUTO DELLO SQUALO
Gianni Solla ha scritto un libro spassoso e insieme funesto, di carne maleodorante e diffusa,di quell’umorismo nero di vecchia ma validissima accezione moraviana per cui si finisce col ridere della morte. "Il fiuto dello squalo" racconta in prima persona la storiaccia di una vita infame, grottesca quanto si vuole ma in fondo non più tanto del “reale” prodigiosamente osceno che è oggi il nostro paese regredito a un grado zero di tutto. Una storiaccia napoletana, in cui Sergio Scozzacane (questo il vero nome del protagonista) è un impresario di pseudocantanti e gruppetti straordinariamente votati al fallimento.
Poveri sciagurati insomma, che l’uomo intorta mostrando loro presunti dischi di platino, in realtà “patacche fatte produrre da un fabbro a sette euro”, illudendoli che la sua casa discografica, la Musica Blue Records (a pagamento…) darà prima o poi il successo agognato. Gente come lo squalo, è noto, non si accontenta di fregare il prossimo. I soldi non gli bastano mai. Anche se vive in una sordida pensione, circondato da una laidezza totale, e da donne terrificanti. È uno che i debiti se li va a cercare. E a Napoli basta contattare un camorrista per inguaiarsi ulteriormente – il peggio è fatto in un attimo. Perché poi i debiti si pagano, specie in questi casi. Altrimenti, si viene convinti attraverso metodi molto persuasivi. Con lui cominciano tagliandogli un dito del piede, per dire.
Lo squalo è messo così quando scopre che Mattia, una volta tanto un ragazzo che la voce ce l’ha, si guadagna un riconoscimento importante in televisione. Considerando che ce l’ha sotto contratto per altri due mesi, pensa che questa sia l’ultima occasione per venir fuori dalla sua vita di merda – anche perché i soldi da restituire alla camorra sono tanti. Solo che Mattia sa cantare quasi senza saperlo, è un ritardato, difatti ha una sorella, cieca, che pensa a lui. Il viaggio che li porterà a Sanremo – illusoria svolta di tre vite disperate - declina in versione esilarante ma amarissima non un impossibile on the road né tantomeno un ultimo cammino della speranza ma una deriva drammatica di poveracci qualunque.
Con il che arriviamo al punto di questo strano romanzo. In giro se ne parla come di un pulp – e va bene, ma la tragicommedia nera che mette in scena, meglio ancora, la voce che la scrive – focalizzazione che più interna non si può - sembrano, rispetto alla realtà di questo paese – gli ultimi vent’anni sotto gli occhi di tutti – persino “verosimili”. L’orrore è a portata di mano, Napoli-Italia oggi, fuori dal libro, non è meno raccapricciante. Diverte il libro, e molto, anche se forse qualcosa non convince del tutto. Romanzi del genere sono difficili da tenere per duecento pagine senza essere ripetitivi – rischio che "Il fiuto dello squalo" nei momenti di raccordo della storia dove si tratta di tirare il fiato fra una scena importante e l’altra, non può evitare. Le pause di riflessione di questo fallito consapevole, figuro di una sinistra tenerezza, insudiciato nei suoi letti schifosi, nei suoi abiti maleodoranti, nell'orrore fisico che lo tiene in piedi come una somma sbilenca di croste e moccoli, a volte sono prolisse, e il ritmo rallenta. Inoltre, qualche impennata linguistica ti domandi se sarebbe davvero a disposizione del suo vocabolario. Ma forse è inutile farsi domande teoriche sul grado di mimesi del romanzo – è sicuro che il paesaggio sociale che descrive è più diffuso di quanto siamo disposti ad ammettere. Quando entra nel vivo dell’azione, quando il grottesco emerge per necessità e non solo per mero artificio letterario, questo romanzo è davvero avvincente.