IL PRINCIPE È MORTO CANTANDO
C’è una cosa credo implicita, e forse più propedeutica che collaterale al resto, in Il principe è morto cantando. Una autobiografia letteraria attraverso l’analisi critica del personaggio, che mi sento di sottoscrivere: ciò che resta nella letteratura romanzesca sono innanzitutto i personaggi. Che esistano in quanto figure in movimento, che trovino il loro senso nell’azione piuttosto che nel pensiero, è secondario. Perché se non per la lettura immediata almeno per l’eco che producono nel tempo, secondarie appaiono piuttosto le trame e gli intrecci. Laddove è della schiera dei grandi personaggi la capacità di costruire “miti”. Archetipi, persino. Esagerando un poco, direi che l’opzione critica avanzata e praticata da Andrea Caterini nel suo libro di saggi suHenry James, Dostoevskij, Conrad, Dickens, e poi Moravia, Siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Quarantotti Gambini, sembrerebbe quella di un’adesione-opposizione sentimentale che si fa carico del peso del personaggio – e da esso muove verso una conoscenza che parrebbe osare l’incrocio di più vettori: l’oggetto in sé, l’autore che gli dà vita, il cuore stesso della propria ricerca di lettore. Come se il critico lì trovasse le ragioni anche del proprio ruolo, prim’ancora, del suo proprio innamoramento (persino di una patologia, suggerisce Caterini). Come se nel personaggio si tracciasse il crocevia in grado di congiungere in un unico punto magico la risposta a una domanda possibile (e non v’è chi non se la sia sentita porre più di una volta nella vita): ma perché non fai altro che leggere? Un’esagerazione?
Epperò, così fosse non sarebbe deprecabile. Perché nella via aperta dall’esaurimento ormai ventennale delle pretese di una critica oggettiva, scientista, il libro di Caterini è non l’ennesimo sintomo di un ripiegamento impressionista, ma la rivendicazione chiara e onesta di una rimessa in gioco della personalità del critico, partecipe e direttamente coinvolto in ciò che indaga. Che poi in effetti: se la letteratura non cambia qualcosa dentro di noi, non ci scuote almeno un po’, a che serve? Se il termometro non dell’emozione ma della conoscenza non si smuove di un grado, cosa resta di diverso rispetto allo spettacolo? La letteratura ridotta a spettacolo veniva teorizzata guarda caso più di venti anni fa da un allora giovane piacione torinese, all’inizio di carriera – e i risultati si son visti. I suoi s’intende.
Ciò che viene meno in un approccio del genere, a parte il rischio - non parlo del libro specifico ma di un’eventuale “tendenza” - di una deriva emozionale e filologicamente inerte (molto se non tutto dipende dalla qualità del lettore) è la sciagurata pretesa di esaurire il significato (mi si perdoni l’orrenda parola) di un’opera, il senso di un personaggio. Da questo punto di vista ben venga insomma una critica autobiografica, in cui tutto o quasi – va precisato con chiarezza - dipende dall’acume del lettore. Che a Caterini non manca. Ora, poiché in queste pagine il testo è stato già trattato dal direttore G.F., più che dell’Idiota o del Michele moraviano, di Copperfield o Lord Jim, vorrei soffermarmi su una nota dell’autore in apparenza avulsa dal contesto, spia probabilmente di un disagio. Caterini ha fatto bene a esprimerlo, scoperchiando unpunctum dolens della ciclotimica vita letteraria italiana di questi anni.
Egli richiama l’evidenza della distanza sempre più forte fra scrittori (aggiungerei lettori) di narrativa e poeti (e, forse, lettori di poesia). Per il critico questo è inconcepibile perché, scrive, entrambe le forme espressive hanno una radice primigenia nel sogno (e ciò varrebbe per la stessa vita). Ecco, non saprei dire se è tutto lì. Io volo basso, da rozzo empirista scettico quale più o meno temo di essere; noterei solo che nessuno si è mai stupito del fatto che piccoli o grandi musicisti (del presente e del passato) abbiano rifiutato drasticamente forme musicali diverse dalle proprie. Anche contestandole in maniera aspra e decisa (non c’è nemmeno bisogno di arrivare alla violenta idiosincrasia di alcune avanguardie del ‘900 per il melodramma). Avendo magari torto, ovvio – pensiamo a Michelangelo, per far riferimento a un’arte, quella della pittura, di cui mi pare Caterini sia un cultore sensibile e attento, e ricordiamo il suo sprezzante giudizio sulla pittura di paesaggio.
Ora, temo che la diagnosi di Caterini sull’”informale freddo” di Marco Giovenale (poesia, a suo avviso, cerebrale ridotta a grammatica e a metrica) possa estendersi, agli occhi di un narratore anche molto più sofisticato del tipo trama-stile-personaggi, alla gran parte della poesia oggi in circolazione. Potrebbe trovarla per gran parte illeggibile, inutile – anche nella versione non “fredda”. Agli occhi di molti scrittori (anche se i più si guardano bene dal confessarlo per non fare brutta figura e inimicarsi l’ambiente) non l’ammissione di un male di vivere, ma l’omissione mascherata di un’incapacità di scrivere. Potrebbero avere torto, si capisce. Epperò, mi permetto di dire, potrebbe non essere un dramma non “comunicare”, ma una liberazione.