E non ci sono nemmeno più i divi
di una volta. Quelli che il carisma non sai bene cos’è – anche perché va bene
il paese che non ha bisogno di eroi, ma il democraticismo della sinistra ha
preteso infine di piallare persino l’avvenenza -, quelli che andavi al cinema e
ti costringevano a chiederti cosa ci fosse dentro quegli occhi, in quel modo di
tenere la sigaretta (dio!, la sigaretta! in galera!). Se ne scrive nel numero
22 (“Divismo/Antidivismo”) della rivista di Estetica “Àgalma” diretta da Mario
Perniola, filosofo fra i pochissimi davvero interessanti della cultura
italiana, del quale abbiamo più volte parlato sul Paradiso (e intervistato). I
saggi sparsi nel periodico (è un semestrale, edito da Mimesis) ruotano
soprattutto intorno al mondo del cinema, e si capisce, peraltro con un pendant
politico che si spiega e giustifica almeno dai tempi di Ronald Reagan.L’assunto
dell’editoriale di Perniola sollecita tangenzialmente la lettura delle brevi
ricerche ivi contenute, tirando le somme di un processo argomentativo partito
da Marx, il quale agognava un mondo in cui la sparizione della divisione del
lavoro avrebbe favorito la possibilità di essere artisti tutti – e, meno
pacifico il suo caso, di Lautréamont, poeta agli albori del simbolismo, secondo
cui “la poesia deve essere fatta da tutti non da uno”. Così passando per Dada,
Andy Warhol e i social network, siamo giunti, scrive il filosofo, “nell’ultima
fase del populismo, quella divistica”. Il che vuol dire sostanzialmente
che divo può esserlo chiunque e perciò più nessuno nel senso classico cui ci
aveva abituati il ‘900 (diciamo fino agli anni Settanta). A ciò non è estraneo
il trionfo dell’anti-intellettualismo (a tal punto che è di moda fra molti che
scrivono-pubblicano il facile esercizio retorico di dichiararsi
anti-intellettuali). Che consiste in un atteggiamento di sufficienza verso i
saperi più organizzati e legittimati da uno studio approfondito e dalla qualità
della ricerca. In Italia (e varrebbe la pena di leggersi il volumetto che Perniola
gli ha dedicato recentemente, Berlusconi o il ’68 realizzato, presso lo stesso editore) “la
confusione fra autoritarismo e autorevolezza, l’individualismo senza freni,
l’ostilità verso la vera grandezza”, ossia le non troppo parallele convergenze
fra l’incultura del capo di Mediaset e il fallimentare lascito del ribellismo
fine a se stesso, hanno portato fra l’altro non a un acuirsi estremo del senso
critico, ma a innescare in ognuno di noi la domanda fatidica “perché lui sì e
io no?”. Scompaginando alla cieca ogni criterio per, non diciamo misurare, ma
approssimare il vero valore di una cosa, in nome di una malintesa uguaglianza e
del diritto di “essere qualcuno” anche non sapendo essere/fare alcunché: in
luogo di una Marilyn che non c’è più, va bene una qualunque sgallettata
purtroppo uscita viva dall’isola dei famosi imbecilli. Il fatto è che
tutti “si esprimono”, da noi, cioè tutti spremono dalle proprie cavità il
lavorio delle proprie interiora, convinti che gli altri non vedano l’ora di rallegrarsene
– e non si capisce perché. Gli italiani sono un popolo di attori, diceva Orson
Welles, uno che se ne intendeva, ma conoscere il mestiere – fosse anche quello
indecidibile di affascinare il mondo - oggi è un’aggravante, per cui, diamogli
dentro con le patacche. Ora, è proprio questo esito avvilente a problematizzare
il punto di vista dell’articolo iniziale, a opera di Veronica Pravadelli, teso
a ribaltare la vecchia prospettiva di Morin e Marcuse per i quali il divismo
sarebbe solo il risultato di un lavoro industriale costruito su misura. Se in
alcuni casi il carisma di queste divinità moderne è stato in grado di produrre
mito per forza intrinseca, è difficile confermarlo per le nullità da prima
serata raiset. Dalla fascinosa Clara Bow a Sabrina Ferilli. Da Gary Cooper
(articolo di Maria Paola Pierini che mostra come l’elusivo attore si
svincolasse dalle immagini che la Paramount tentava di cucirgli addosso) a PF. Favino,
uno che aggrava la sua posizione ogni volta che apre bocca. Così, latitando il
fascino di attori e attrici, la si butta in politica – al solito, gli italiani
sentendo il bisogno di seguire gli americani nel peggio (e la nostra storia
dovremmo conoscerla). Ma se l’appeal di Obama lo hanno a suo tempo fabbricato
sui modi e il passo di Denzel Washington, il vecchietto di Arcore chi s’è dato
come modello? Se stesso, ovvio, giusta la teoria della star strategy rievocata
nel saggio di Cristina Jandelli: è la marca che si trasforma in star.
Berlusconi avrebbe potuto chiamare le sue aziende con il proprio nome, non gli
avrebbe nociuto neanche un po’. Perché Berlusconi è stato la sua azienda. E la
sua azienda quella che ha eletto la mediocrità a sistema, che ha permesso ai
mediocri orgogliosi di esserlo, di “esprimersi”. Di farsi divi di se stessi e
dei propri simili persino migliori d loro. A ogni epoca, le star che merita.