Imperdibile, lo diciamo subito per chi non lo conoscesse. Ci riferiamo all’edizione aggiornata e in versione più ampia di LTI – La lingua del terzo Reich, (Il Taccuino di un filologo), testo capitale del ‘900. L’autore, Victor Klemperer, era un filologo tedesco di origini ebraiche, convertitosi al protestantesimo, che durante il nazismo salvò la pelle grazie al fatto di essere sposato con una donna tedesca, ossia, secondo le farneticazioni in auge ai bei tempi, un’ariana.Successivamente alla pubblicazione del libro, nel 1947, Klemperer passò al comunismo di Stalin, che gli avrebbe certo offerto altrettanti motivi di riflessione, ma lo studioso non dimostrò la stessa lucidità, cosa che non inficia minimamente il lavoro straordinario qui contenuto. Si tratta di un libro che mostra in una insolita forma ibrida che tiene insieme l’analisi linguistica - filologica appunto, seppur non esente da un’impronta idealistica tutta interna alla cultura tedesca – e la cronaca diaristica di quegli anni. Victor Klemperer analizza parole ricorrenti del vocabolario nazista, paradigmi concettuali, officine morfologiche, distorsioni semantiche, l’uso del superlativo e quello particolarmente infame delle virgolette, interi discorsi, insomma in una parola la lingua del nazismo come laboratorio prima e ambiente “totale e chiuso in se stesso” fino agli anni che porteranno alla seconda guerra mondiale. Studio fondamentale, “Lingua Tertii Imperii”, per capire come un regime orienti e determini attraverso le parole il “sapere” o il “pre-sapere” di un intera nazione, lo de-costruisca, lo modifichi e modelli a suo piacimento. Il sapere e il sentire, anzi, che forse mai come in Hitler debbono confluire in un unico, vischioso impasto mortale. Un organismo che utilizzava la lingua in un certo senso per azzerarla, per svuotarla della sua forza critica e immaginativa e viceversa ridurre i tedeschi alla volontà del capo.L’acribia di questo studio ‘cronachistico’, cui l’autore accompagnava osservazioni inerenti codici non necessariamente verbali della comunicazione hitleriana e altre note sparse, lo aiutò a superare le difficoltà che la sua vita dovette sostenere. Gli era stato sottratto il lavoro e la stella gialla lo additava come reo al resto dei tedeschi, così questo strano tipo di diario, nel quale l’analisi non aspira alla sistematizzazione tipica delle procedure che si vogliono a tutti gli effetti “scientifiche”, lo teneva fermo e ancorato a qualcosa di tangibile. Il suo era un lavoro, scriveva, di “autoconservazione”: un esercizio apotropaico della lingua e del pensiero che puntava a tenere a bada il veleno inoculato dalla retorica nazista. Una difesa solitaria e “sul campo” contro una macchina da guerra micidiale - a prescindere dai risultati, un’operazione geniale.Ma conta ciò che resta al lettore. Vero che come viene detto in una nota alla fine, gli viene richiesta una buona conoscenza della cultura europea, di quella francese dell’illuminismo per esempio, ma rovescerei la prospettiva e direi che la lettura del libro è un’ottima occasione non tanto per riandare al nazismo quanto per riflettere sui presupposti linguistici che sono sempre e senza eccezioni alla base dei principali sistemi politici. Molto si potrebbe imparare sui nostri tempi presenti, c’è da dirlo?