Alfred Jarry
su flanerì
«Il Supermaschio è probabilmente il più bel romanzo Art Nouveau».
Così scrisse il dimenticato Alfredo Giuliani, critico troppo libero per poter fare scuola, non casualmente a suo agio con un irregolare come Alfred Jarry (1873-1907), scrittore assimilato dai posteri alle prime avanguardie europee e in realtà battitore libero che, nonostante gli apprezzamenti smaccati, sarebbe stato stretto nei dettami surrealisti di A. Breton.
Per alcuni aspetti nei suoi libri presuppone qualcosa del surrealismo, lo anticipa, lo indovina. Ma Jarry vale un po’ tutto il surrealismo letterario preso in blocco (almeno quello che ufficialmente si proclamava tale). Perché nel movimento di Breton, come spesso accadeva con le avanguardie, non si seppero evitare quelle soluzioni didascaliche, dimostrative, che sono sempre state il limite di un movimento, di una corrente che per aderire ai suoi stessi principi finisce non raramente per ingabbiare la creatività dei singoli.
A Jarry non poteva succedere. Perché egli era l’antidoto di se stesso. Si autoscavalcava, non per frenesia ideologica, ma per inclinazione naturale alla rivolta. «Non avremo distrutto nulla finché non avremo distrutto anche le rovine» scrisse da qualche parte. Nicciano in versione stramba e deforme, ma ludica, sapeva che – ben lo dice Giorgio Agamben nella postfazione a questa bella edizione de Il Supermaschio – affermazione e distruzione coesistono, che la massima potenza di un sesso infinito, replicabile senza posa, coincide con il vuoto, con il nulla: laddove resta solo il riso.
Jarry è noto a un pubblico più vasto (si fa per dire) soprattutto per l’invenzione del mostruoso Ubu, il re fuori misura, grottesco, rablesiano che farà la gioia del teatro novecentesco (ma nasce nell’Ottocento, Jarry era poco più che un ragazzino) e per la patafisica del dottor Faustroll. In realtà sono molti i personaggi pazzeschi e abnormi creati dalla fantasia di Jarry. Fra essi, Il Supermaschio accentra su di sé il principio portante della modernità: l’energia tesa verso l’infinito, l’inesausta vitalità della ripetizione erotica che però, proprio perché può replicarsi senza posa, perde di significato; che per questo rende le fatiche dell’eroe inutili, comiche. Curioso destino per un uomo (per l’uomo) che, ancora modernisticamente, niccianamente, concentra nell’ispirazione di una virilità illimitata, il destino della tecnica fatta dio. Dove lo scacco che lo aspetta non è il risultato di un fallimento, di una riuscita impossibile, ma della scoperta della sua inutilità.
Ma il lettore vorrebbe forse informazioni più semplici. Bon, sappia che troverà motivi di divertimento in questo libro. Che André Marcueil trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza cercando prima di combattere la sua deformità, poi di comprenderla facendo anche «esperienze contro natura, salvo accorgersi di quale abisso separasse la sua forza da quella degli altri uomini». Sottoponendosi alla scommessa del secolo: superare il numero di amplessi dell’indiano descritto da Teofrasto. Mentre accadono, accanto a lui, cose altrettanto straordinarie. Tra l’assurdo, la fantascienza e le chiacchiere del gran mondo francese di fine Ottocento.