dal recensore.com
Forse un lettore romano potrebbe risentirsi. Perché se se lo dice da solo è un conto, se viene a dirglielo un lettone trapiantato in America, che la sua invero strarotta città è sporca da far schifo…
E non solo: “dura, sgarbata e inospitale”, rovesciando in epitaffio da consegnare ai posteri (virtualmente, anche i lettori eventuali del prossimo secolo) un’immagine così negativa, be’, i romani, si sa, finché “se scherza”. ma poi…
David Bezmozgis, scrittore meno che quarantenne, tra i venti migliori della sua generazione ad avviso del New Yorker, la pensa proprio così. Non si è limitato a raccontare (Il mondo libero, editore Guanda) le peripezie di una famiglia di ebrei lettoni che nel 1978 lasciano l’Unione Sovietica per raggiungere l’America passando per l’Italia – peripezie, e prolungato soggiorno italiano non di rado fastidiate, ma ha rilasciato interviste in cui ha lasciato intendere di non pensarla molto diversamente da alcuni dei suoi personaggi, riguardo alla capitale, città amabile solo per i “turisti che hanno soldi da spendere”, ha detto, tutt’altro che accogliente per i rifugiati.
Tutto questo lo diciamo non per gettare una luce di antipatia sull’autore (anche perché, non conosciamo l’esperienza dei rifugiati, ma il tracollo di Roma lo può negare solo un ultrà), ma per quella che sembrerebbe una non scontata convergenza tra lo spirito del romanzo e l’esperienza del suo autore.
Ne Il mondo libero, Bezmozgis (al suo secondo romanzo dopo Natasha) racconta della famiglia Krasnansky, dell’idiosincratico e borbottante patriarca Samuil, dei figli Alec, un adorabile sciupafemmine, e Karl, incline invece a cercare occasioni per far soldi, delle loro donne, la madre Emma, e le mogli Polina e Rosa, di figli assortiti, insomma di una bella banda di rifugiati che a Roma incontrano altri russi, altri ebrei. L’inizio è folgorante: di passaggio a Vienna, mentre sui binari i più “si affannavano, ringhiavano e sgomitavano per depositare i loro averi sul treno fermo in attesa” e la famiglia aspetta che lui, uomo giovane, faccia il suo dovere di aiutare a sistemare bagagli e il resto, Alec è incantato da due giovanissime ragazze abbronzate, “a piedi nudi (…) le camicie leggere e senza maniche (…) il viso incantevole e inespressivo”. Alec ha la sua brava epifania, probabilmente gli arriva all’altezza mediana del corpo. Il fatto è che le due giovani “sembravano immuni da orari e obblighi”. Ecco, il tempo senza tempo della pura possibilità, l’orizzonte del piacere, del gioco che vorrebbe sostituirsi all’anfanare di una vita faticosa, che ti costringe a emigrare. Il mondo libero per Alec è innanzitutto quello lì, evidentemente. Ma lui è un caso a parte. Per gli altri, si tratta di replicare per l’ennesima volta un destino, consegnato al popolo ebraico da una storia peculiare. La moglie Polina, imbozzolata in un senso di spaesamento, sembra subire gli eventi. L’idea di dover passare per Roma (“città dal crimine dilagante”) l’atterrisce. Non la solleverà se non in parte scoprire che i russi fuggiaschi di quegli anni perlopiù sverneranno a Ostia, o a Ladispoli.
Il patriarca, Samuil, ex ufficiale dell’armata rossa, nel comunismo stava a suo agio, e prende di mala voglia questo cambiamento, meno ancora gli piace sentir parlare di sionismo dalle donne della famiglia.
Non sempre il romanzo mantiene le promesse della prima pagina, a volte rallenta nell’accumulo di informazioni, o dei dialoghi, ma non mancano quelle godibili. Humour e malinconia accompagnano l’esodo di gente che però vi è “geneticamente” abituata, e mentre borbotta o recrimina per quel che lascia, si dà da fare. Ché la vita non va perduta, anche se ti costringe a inseguirla.