dal recensore.com
Nel romanzo d’esordio di Tommaso Giagni, “L’estraneo“, per Einaudi Stile Libero, il protagonista (e voce narrante) soffre una sostanziale separazione fra sé e il mondo - tema classico quanti altri mai, la mancata identificazione con un ambiente, una lingua, un modo di intendere le cose, giocata in questo libro tutta all’interno di una città, Roma, fra il suo centro e la periferia.
Il ventenne senza nome è uno sradicato cresciuto nella “Roma delle rovine” (così la definisce), agiata e borghese, con un padre portinaio venuto però dalla periferia, una “Roma di Quaresima” slabbrata, di disgraziati senz’aura - condizione che non solo allontana (e quello è una dato storico ovvio) il Pasolini pure evocato qua e là, ma pare rovesciare l’intuizione del Walter Siti del “contagio”. Nella Roma di Giugni, autore peraltro molto giovane, il protagonista non è davvero da nessuna parte, mai davvero a proprio agio, in difetto sempre. Centro e periferia sono i due poli fra cui rimbalza il malessere e il tentativo di superarlo.
All’inizio le vicende sono più “riferite” che mostrate. Il narratore (inutilmente a caccia se non di una qualche autenticità, di un qualche senso delle cose, o forse di una verifica di sé nelle borgate che furono del padre, fuggito decenni prima verso il centro - illusorio approdo di una vita piccolo borghese), il suo disagio lo teorizza, lo commenta. L’incertezza è tangibile in certi passi in cui il romanzo sembra il riflesso di parole d’ordine della critica: di un tale Leonardo si dice che “il suo trauma è non aver avuto lutti gravi”…
Ritmo, lingua, scene trovano una più sicura compattezza andando avanti nella storia, man mano che il giovane conosce più a fondo la borgata in cui prova a vivere con i suoi infelici ben poco romantici, fra palestre e sale di videogiochi. A un certo punto prova a guadagnarsi da vivere assieme al compagno d’appartamento, aduso a tirar su denaro con il sesso. Vanno insieme nell’abitazione di una docente universitaria in là con gli anni (la casa piena di opere d’arte) che per godere ha bisogno di trovarsi due coatti (da stereotipo) fra le gambe. Ora l’estraneità tematizzata nel romanzo mostra finalmente il suo carattere radicale, quasi grottesco, nel fallimento dell’avventura. Il ragazzo proprio non ce la a soddisfare le voglie di questa baldracca alto-borghese, infoiata come una cagna in calore.
La poco riuscita fusione nella precaria identità del giovane, un appassionato d’arte, cerca un omologo linguistico lavorando sugli scarti fra una lingua più addestrata e il masticato gergale di un romanesco impoverito, quello dei coatti d’oggidì. A volte l’impresa riesce altre meno, forse per via di una certa tipizzazione implicata dal progetto stesso (la polarizzazione e l’effetto cercato di uno scontro fra alto e basso, fra le tentazioni - le inclinazioni - quasi intellettuali del personaggio e i bar e le palestre che incontra nella periferia). Qua e là qualche scivolone “lirico” (“Il cuore batte all’impazzata e mi rinfaccia che l’idea di finire quaggiù non gli è venuta a lui”) fa rimpiangere l’assenza di un editing più attento per un esordio comunque interessante.