dal recensore.com
“Missing” (La Nuova Frontiera) di Alberto Fuguet è di quei libri che non sai se fermarti alle prime pagine o andare avanti sperando che entrino il prima possibile nel loro nucleo più autentico.
Meno spesso succede che alla tentazione di mollarlo (perché la lingua, anche in traduzione, non ti convince appieno, senza peraltro risultare sconsolante – lì la finiresti preso) si accompagni il sospetto che il libro abbia da dirti qualcosa che potrebbe essere persino rilevante per te, rilevante ben oltre l’eventuale gradevolezza della lettura.
Sono andato avanti così per un bel po’ con questo lavoro di Fuguet (regista oltre che scrittore), tradotto dalla Nuovafrontiera, copertina splendida firmata da Flavio Dionisi. Com’è andata a finire? Che Missing è restato sino alla fine una buona storia ma non molto di più, una non-fiction-novel incentrata sullo zio dell’autore, inopinatamente scomparso, ultimo gesto di una biografia abbastanza bizzarra e misteriosa da attrarre la curiosità dello scrittore.
Fuguet acquisì notorietà a metà degli anni Novanta col movimento McOndo che tracciava una linea di rottura rispetto al campo lussurioso e spesso nauseabondo del “realismo magico”. Ora, la non-fiction“filiale”, come la chiama lo scrittore (ispiratori alcuni libri di Ellroy o Carver o Ford) sarebbe benvenuta se non fosse in certi momenti troppo esplicativa delle sue ragioni e di quelle dello scrivere.
Il dettato insomma – è questo che non convince appieno in Missing – rischia il didascalico, in virtù di una certa facilità di scrittura non estranea a molta letteratura sudamericana di successo degli ultimi vent’anni. In un lavoro che invece avrebbe alcune buone ragioni per essere interessante. La trama sotterranea per esempio – quella infatti più sottaciuta – fra la solitudine dello scrittore e quella dello zio disperso. La solitudine del primo ha il vantaggio di essere “benedetta” dal suo status professionale, condizione che se pure obtorto collo da parte degli altri, li costringe ad accettarla come “fisiologica”. E dal rifugio rassicurante – almeno in questa versione – della scrittura, il narratore può godere di una possibilità che se non è a priori una garanzia di salvezza, di certo aiuta. Ordinare il mondo, tenere a bada il caos, vivere nel modo più consono alle proprie attitudini. Lo zio, eccentrico la sua parte, certo meno istintivamente equilibrato, le sue stravaganze sarà costretto a pagarle sino in fondo. Che anche darsi la possibilità di scomparire e rinascere da qualche parte, una vita nova, ammesso che sia possibile, implica un cammino drammatico.
Lo scrittore cerca di recuperarne le tracce, ascolta le storie sul suo conto, sa che hanno da fare con il carcere, che s’intreccia con quella dei familiari di entrambi, in un rimbalzo continuo fra gli Stati Uniti dell’emigrazione o della fuga necessarie, e il Cile nativo. Non sa nemmeno se è ancora vivo; sa che nei rapporti con gli altri familiari si nascondono motivi non secondari nella sparizione, che come in ogni famiglia le zone oscure non solo esistono ma possono determinare lacerazioni profonde. E sa anche – o sospetta - che l’approdo da comunista e per giunta caratterialmente instabile negli Stati Uniti non è un fattore estraneo al mistero della sua vita. Il libro è questa ricerca, un viaggio non privo di suggestioni nel doppio volto del continente americano dagli Usa alle estreme propaggini meridionali, e un’esplorazione nei “luoghi oscuri” di un personaggio tormentato.