Emanuele Tonon
La luce prima
Lo hanno detto – scritto in tanti: non è facile parlare di un libro dai tratti così intimi, privati e ovviamente dolorosi, visto che Tonon ne La luce prima, “struggente canto d’amore per una madre” (Isbn Edizioni) – una madre che non c’è più - risponde a un’urgenza non letteraria – che però letteraria è, non solo perché una semplice lettura consente di verificare come il testo non sia niente affatto privo di una sua cifra formale, ma perché, banalmente, è venduto come “romanzo”. In altre parole, La luce prima sfonda il chiuso domestico del diario personale ed è a tutti gli effetti un testo pubblico. Di più, si tratta di un’“opera”. Per questo, - scavalcando l’implicito, oggettivo benché involontario ricatto che questo genere di testi procura all’impegno del recensore - cercherò di sottrarmi alla trappola e trattare il libro alla stregua di qualsiasi altro testoDunque, Tonon “getta” nel suo romanzo un dolore terrificante, l’affezione per la morte della madre – una madre raccontata per lunghi, bellissimi, strazianti tratti con acutissimo e crudo benché innamorato sguardo corporale. In una specie di afflizione pauperistica si svolge una biografia drammatica, basti pensare che lo stesso figlio che la racconta non è un frutto dell’amore. Ma Enza sembra avere la forza dolce, l’amore ostinato di quei corpi minuti e oltraggiati dalla vita che sembrano toccati dalla grazia. Il narratore è lacerato da un altrettanto straziante senso di colpa per averla trascurata in vita, o almeno per non averla amata abbastanza. Gli è che Tonon non riesce a staccarsi da se stesso, dal sé scrittore che come ogni scrittore spesso finisce per non vedere altra cosa dallo scrivere. Preso dalle sue storie “oscene”, ha bisogno della morte per capire cosa (chi) ha dovuto sacrificare, per la scrittura. Per sentire sino in fondo. La consapevolezza vera di questa fine, arriva quasi come una folgorazione. Lo squarcio di luce che ne apre altri (secondo una lezione della ripresa inesausta della visione-narrazione-rivelazione che a me pare non ignara dell’esempio di Antonio Moresco) è anche il trabocco dell’amore e delle parole per dirlo. La vertigine è il destino di una corsa di pensieri e di parole (il ritmo compatto, torturante e cantabile insieme, presa com’è la voce dall’amore per la madre), corsa che esplora nella profondità inseguita della paratassi l’abisso non del male ma di un’assenza: la propria insufficienza di uomo, del Figlio che solo ora prende contezza dello Spirito Santo, e si macera, infliggendosi da solo la pena di questa colpa e cercando – suppongo – contemporaneamente di guarirne, attraverso la scrittura va da sé. Questo piano del racconto mi sembra da ascriversi in modo non trascurabile all’orizzonte culturale di riferimento dell’autore, che è religioso. Pertanto ne compenetra lingua e immagini. Il teologo-operaio Emanuele Tonon (sono questi i termini che vennero usati quando nel 2009 uscì il suo primo libro, Il nemico), che si è allontanato dall’istituzione cattolica, non ha smesso di perseguire la guerra amorosa con il suo Dio, “crudele”, che “salva solo chi gli pare (…) basandosi “sulla sua cecità sommamente giusta, dicono”. Tonon – che in tutta evidenza ci autorizza a non cercare filtri tra l’autore e la voce narrante – si sente tradito dal suo Dio ma non può fare a meno di amarlo. E non può non evocare man mano che approssima il finale un’immagine dell’amata madre perduta che è sempre più coincidente con quella della Madre madonna. Ecco, l’autore mi perdonerà, ma mi pare più interessante il netto che resta fuori da questa sorta di sovrastruttura. Lo spiritualista Tonon, che in conflitto con sé stesso e con il suo Dio, non smette di cercare una redenzione (sebbene - lo scrive egli stesso - tutto sia “irredimibile”) ha un senso così vivo, lancinante, e persino violento delle crepe, degli spacchi, delle fratture che de-compongono la rude materia del vivere, da lasciare - quando scava, scortica, frantuma il quotidiano - un segno terribile. Nella contorsione drammatica delle sue fatiche, delle insufficienze affettive, delle solitudini appestate e chiuse duramente in se stesse, delle mani meramente “efficienti” (e nemmeno tanto, nemmeno sempre) dei chirurghi affaccendati nel corpo aperto della madre, Tonon riesce a far male come pochi – a molestare (ossia a vivificare) la stolta quiete del lettore d’oggidì.
Legittimamente, però, in questo libro aspirava a qualcosa d’altro.