10 lug 2010

Frammentismo novecentesco: Joyce fra avanguardia e racconto.




Scrivevo tempo fa che da più parti si smania per rimuovere il ‘900 dall’odierno discorso critico. Il fatto è che nessuno ci ha spiegato perché. Quando si voltarono le spalle al grande romanzo realista dell’800 si disse, per semplificare, che il paradigma onnisciente da esso implicato non era più credibile. Era lo stesso ‘8oo a nutrire in sé i germi di quell’implosione; la lezione nietzscheana (morte di Dio, fine della metafisica - a prescindere qui dalla lettura di Heidegger) preparava la frammentazione centrifuga del dettato romanzesco. Prima che letteraria la questione era epistemologica.
Che cosa sia successo negli ultimi trent’anni, a parte l’ostentato e reiterato proclama del bisogno di tornare al racconto, non è ben dato di sapere. Non che non dovesse succedere, ma spesso invece che a una rielaborazione critica assistiamo a giudizi sommari, ove più che altro si coglie la fregola di abbandonare a se stessi testi di non immediata leggibilità. Come questo Giacomo Joyce, tra tutti i titoli del grande scrittore irlandese certamente uno dei meno noti, nonché l'ultimo pubblicato – postumo, solo una cinquantina di anni fa.
Lavoro autobiografico, vi si racconta – se il  verbo non è improprio - l’infatuazione di Joyce per un’allieva del corso di inglese che lo scrittore teneva a Trieste negli anni della sua esperienza italiana. Anni che coincisero con quella che allora chiamavano "la mezza età". Il protagonista è dunque un uomo sui trentacinque anni (non i trentacinque di oggi, iniens aetas spappolata da una coatta estetizzazione di massa) che si innamora di una donna molto più giovane di lui, e che tenterà di sedurre  con le armi subdole, raffinate quanto inutili della sua cultura. E, come accade ai patetici antieroi dei romanzi dell’amico Svevo, anche qui il dotto seduttore, tumido del suo sapere e imbranato malgrado gli sforzi, fallisce. Di questo fallimento la prima pagina è presaga: la ieratica distinzione di lei, la vana conversazione di Giacomo che cita mistici e filosofi, la goffaggine del contatto e il rapido esaurirsi di quell'onda fabulatoria che non approda a nulla:  è già tutto chiaro dall’inizio.
I lettori attenti di Joyce si accorgeranno che alcuni tratti di questo libello compaiono mutati o ampliati nel Portrait  e nell'Ulysses: Joyce li utilizzò probabilmente pensando che il breve lavo­ro non sarebbe diventato un libro, non ravvisandovi quel modello di drammatizzazione che egli considerava come la forma artistica per eccellenza. Ed è proprio per questo che risulta un tentativo esemplare della scrittura novecentesca. La stessa difficoltà di definirla è sintomatica. Lì per lì sembra felice la scelta del Binni quando parla di prosa poetica; forse lo si potrebbe dire meglio poemetto in prosa. Vi è chi ha parlato, come riferimento compositivo e ideale, della Vita Nuova di Dante, modello non del tutto improbabile che Joyce conosceva e amava.
Per certo, come testimonia la riproduzione fotografica del taccui­no, il racconto appare tracciato alla maniera di un testo poeti­co, con ampi spazi bianchi, che rimandano a suggestioni di certa poesia mallarmeana e visiva. Motivi crip­tici inseguono e prolungano, in quegli spazi, i  meri significati dei grumi verbali. Pur mancando il pletorico addensamento di grovigli lin­guistici dell’Ulysses e di Finnegans-Wake, ci  troviamo anche qui di fronte ad una prosa che parla come nella poesia soprattutto attraverso il "come”. E il discorso, frammentato, stringatissimo e poi aperto in quelle rivelazioni bianche e allusive, rivela ancora una contiguità all’arte dei versi, dove le visioni improvvise  (definite "epifanie" dallo scrittore), che configurano una tipologia o dei caratteri, e svelano la realtà in un’intuizione improvvisata, saranno per loro laconica natura più prossime all"evocazione violenta di un clima, di un ethos, che a essere trasferite ad un esteso svolgimento di accadimenti concreti (che qui mancano perché la ragazza proprio non ne vuol sapere, ecco).
Se per le opere narrative maggiori si potrà parlare, come Eco ha fatto, di epifanie-struttura, qui invece abbiamo di fronte un'epifania della parola isolata, della microproposizione descrittiva che sradica le cose dalla loro condizione comunemente conosciuta, svelando della donna ambita l'immagine preziosa e inattingibile di cui sopra, attraverso rapide, coloristiche folgorazioni che fanno pensare alle rilucenti decorazioni del "romance" o all'arabesco muliebre di Klimt. Lo scenario è attraversato da nebbie oniriche che definiscono il solo spazio in cui diventa possibile realizzare il desiderio di possederla. Lontano da quei sogni ingannevoli, Giacomo non saprà, contraddittoriamente, non scorgere in lei pure dei "falsi sorrisi", una leziosa gentilezza, un’ambigua virtù: già qui, dopotutto, l'acre senso del grottesco che sarà di Ulisse. Il risvolto da umor nero di un esteta che non può accontentarsi dell’estetismo.

Edizione considerata
James Joyce
Giacomo Joyce
Guanda


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