21 nov 2012

Roth e il desiderio



I desiderantes di Giulio Cesare e Philip Roth. Dobbiamo ad Antonio Monda, alla sua introduzione al saggio di Luciano De Fiore (Philip Roth. Fantasmi del desiderio, Editori Riuniti) l’accostamento fra i soldati che aspettavano sotto le stelle il ritorno incerto dei compagni in battaglia e il più grande scrittore vivente.
Il tema del desiderio dà un’impronta fortissima – determinante - all’opera di Roth. Intorno a questa evidenza lavora il saggio di De Fiore, studioso attento ai rapporti tra letteratura, psicoanalisi e filosofia. Giova innanzitutto il fatto che De Fiore rinverdendo i modi di un’onesta critica tematica – seppure oltrepassando i confini del fatto letterario, poco preoccupandosi di questioni di lingua e stile ma consapevole della pregnanza conoscitiva dell’arte romanzesca, pregnanza senza la quale essa si riduce a mero diversivo intercambiabile con l’uncinetto delle nonne e il cazzeggio al bar – e centrando al cuore la poetica del grandissimo autore di Newark, De Fiore, si diceva, sgombra subito il terreno dalla sequela di sarcastiche sbuffate che la critica nostrana ha riservato all’americano negli ultimi anni. Infastidita dal ritorno ossessivo e per alcuni indigeribilmente malinconico intorno ai motivi del deperimento, della vecchiaia (a dimostrazione ulteriore di quanto essa sia il vero rimosso delle società opulenti) molta critica dimentica che essi mostrano l’altra faccia del desiderio. E che se tutto si stringe nel cerchio fra vita (e desiderio) e suo entropico destino finale, ancor più interessante si fa la faccenda nel caso di un personaggio classico dell’iconologia rothiana: il libertino. Che non ne ha mai abbastanza di vivere e per il quale, ovvio, l’esaurirsi delle energie vitali adombra la tragedia che è il vero contrassegno del passaggio dell’uomo sulla terra – spesso sono gli stessi lettori incapaci di comprendere quale abisso fosse in grado di spalancare il comico di Portnoy (sarebbe bastato aspettare il falstaffiano, terribilmente divertente ma tragico Sabbath, “monaco della scopata” di uno dei suoi romanzi migliori).
Infastidita, specie la critica nostrana, anche dalla chiara valenza autobiografica di molti titoli rothiani. Tormentone stupidissimo, ché con questo metro avremmo dovuto seppellire qualche centinaio di capolavori, da Proust in giù, e che soprattutto non comprende come in Roth l’autobiografia sia persino un valore aggiunto. Perché in nessun altro fra i contemporanei si mostra una tale acutezza, un così lucido impegno nella messinscena di un dilemma vertiginoso che coinvolge e intreccia un’antropologia dell’uomo come scrittore, l’estetica, la storia della scrittura romanzesca. Per un autore come lui ciò che è in questione è la necessità di mettere tutto (tutta la - impossibile? - verità) sulla pagina scritta. Con il rischio di contraccolpi micidiali. Biografici. “Non si può essere fedeli insieme e senza attriti alla propria vita affettiva (il padre, la comunità ebraica, la tradizione, la radice profonda della propria vita) e all’impegno letterario” ricorda De Fiore a proposito di Zuckermann e Lo scrittore fantasma.
Ora, se da Goodbye Columbus alle ultime opere, dalla giovinezza oltranzista di una vita che senza desiderio vita non è, alla malattia, dalle donne sedotte e seducenti alle mogli mai definitive, ai padri e ai fratelli, all’America di un mezzo secolo di storia, al conflitto inesausto e tutt’altro che riposante con gli ambienti e l’originaria cultura ebraica, se l’intera narrativa di Roth si pone in “un rapporto complesso con il desiderio”, egli sembra voler scommettere (e non solo attraverso i suoi molteplici alter-ego, in una tensione dialettica mai conclusa fra vita e Controvita) con la possibilità di avere la meglio sulla finzione. E se lo scacco è inevitabile, ché la verità resta un miraggio, vale la pena sottolineare quanto sia sideralmente lontano il suo approccio dal mero gioco del postmoderno.
Io ho rinunciato a vivere per scrivere vite” scrive Malamud, un altro dei grandi ebrei americani. Per Roth l’asserzione non è pacifica. Non lo sarebbe per Zuckermann, o per Kepesh. Per questo la sua scrittura è anche il racconto di questo paradosso. Ché il desiderio non si esaurisce mai, nemmeno con la scrittura, nemmeno con la vecchiaia. Chissà se Roth ha mai letto Leopardi.


Ora ha smesso di scrivere. Lo ringraziamo di cuore perché senza i suoi libri la nostra vita si sarebbe persa qualcosa di bello e importante. Gli auguriamo serenità.

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