La fine
Editore 66thand2nd
Storia di emigranti ma senza nessun tono popolare o strappalacrime questo La fine di Salvatore Scibona (scrittore italoamericano, nato a Cleveland, insignito nel 2010 del Guggenheim Fellowship e incluso dal «New Yorker» tra i 20 under 40, l’elenco dei venti migliori scrittori americani sotto i quarant’anni.) Uscito in America nel 2008, il romanzo sembra scritto piuttosto da un allievo di Don De Lillo ma, come dire, più figurativo. Racconta le vicende di una comunità di italo-americani che si barcamena dalle parti di Elephant Park, Ohio, nel bel mezzo del secolo ventesimo, secolo di grandi promesse per tutti e di immani tragedie per molti. Attraverso una storia che adombra facendolo crescere sottotraccia e lentamente un crimine nascosto, si squaderna davanti agli occhi del lettore un paesaggio di sentimenti acuti, di tormenti, di vite fatte di sangue e fatica ma che non si esauriscono in un esito materiale pure e semplice.
Qui non è questione di mera sopravvivenza secondo canoniche vulgate di poveracci in trasferta permanente; nel romanzo di Scibona non bastano le sconfitte o le vittorie a esaurire il significato di una vita o di una comunità. Dio, la Vergine, vedove affrante, ragazzini problematici, uomini sfigati; e poi il sudore, lo spettro della fame, il Niagara o altre meraviglie del mondo sognate in cartolina.
Immaginario risaputo ma qui rivisto come mero materiale di partenza per una destinazione d’uso inaspettata. La questione dirimente dell’identità di questa gente che cerca di mantenersi salda fuori dai propri confini e teme, a ragione, di non farcela, investe un piano più sottile e più alto, che è quello del “senso”: hanno bisogno, questi personaggi, di trovare una fine ma anche un fine probabilmente, un significato che dia ragione della loro esistenza. Scibona sembra incline tanto a sondare (con una sensibilità iperestesica, eccellente capacità di visione delle cose e dei pensieri) la vita interiore di chi anima le sue storie quanto a trasferirvi parte dei suoi tormenti, con il che emerge forse il punto di crisi di questa scrittura di indubbia sagacia: l’eccesso di cognizione intellettuale di personaggi che non sembrerebbero disporre di certi strumenti, specie linguistici, e che finiscono con il pensare una lingua che è quella del narratore. Un rischio che è parte dell’avventura intrapresa da Scibona.
La narrazione, consapevole della trama non lineare del tempo, all’inizio incentrata su Rocco, panettiere dalla vita tribolata (il primo capitolo, tutto dedicato a lui, è in sé un romanzo in miniatura) pian piano coinvolge altri personaggi e li avvita in un plot fatto di scarti temporali ripetuti, di digressioni, di avvicinamenti graduali. La storia, fra aborti clandestini e religiosità inquieta, figli di italiani che muoiono “da americani” nella guerra di Corea e gioiellieri sinistri, mescola in un plot che sembra muoversi per cerchi concentrici vicende di gente che ha bisogno di sentirsi a suo agio con il mondo che li ospita e dal quale non torneranno. Ma non è per niente facile, per quanti sforzi facciano di vivere nel presente.
Scibona sembra conoscere bene il mondo che racconta, ha per così dire studiato la materia, ha soggiornato in Italia. A volte scrive “troppo bene” e lascia perplessi il fatto che trasferisca con eccessiva disinvoltura la sua sintassi a quella dei personaggi, almeno per ciò che attiene ai loro pensieri. I dialoghi sono più misurati, non privi di acutezze. Il racconto a volte rallenta, sembra quasi avvitarsi su se stesso per poi aprirsi in accensioni luminose; ma chiama a sé lettori pazienti, di quelli che si innamorano di una prosa (almeno quella del traduttore! - Beniamino Ambrosi), di uno sguardo più ancora che di una trama: lettori sedotti da una specie di musica delle connessioni tra fatti, idee ed emozioni. Esordio certo molto interessante, La fine si è guadagnato la finale al National Book Award, e ha vinto il Young Lions Fiction Award, il Whiting Writers’ Award e il Norman Mailer Cape Cod Award for Exceptional Writing.