21 gen 2012

BERNARD QUIRINY

LE ASSETATE
Le assetate


Diciamolo subito, fosse stato scritto da una donna sarebbe stato diverso. Un bello strappo al piagnisteo – al dolorismo, come lo abbiamo definito altrove – di troppa letteratura femminile, una sana dimostrazione di coraggio, e di buon gusto perché no. Invece questa satira di un femminismo totalitario, realizzazione dai tratti fin troppo noti perché mutuati da esperienze storiche “reali” (credo che l’autore guardasse soprattutto ai paesi dell’est comunista) di un ordinamento distopico che rovescia il secolare potere del maschio è stata immaginata e scritta da un trentacinquenne scrittore belga di lingua francese, 
Bernard Quiriny, professore universitario di filosofia del diritto e bravo narratore, anche se improvvidamente paragonato all'inavvicinabile Bolaño. Siamo in Belgio. Anni ’70. Una rivoluzione femminista di dure e pure quant’altre mai prende il potere e instaura un regime totalitario incuneato nel centro dell’Europa ricca e avanzata. Ovviamente, gli intellettuali coevi – francesi, e non stupisce – trovano l’evento esaltante. Così, non vedono l’ora di andare a vedere di persona cosa accade a Viragoland (così come nella realtà si andava in Cina).
Le assetate di Quiriny (Transeuropa) è costruito con un montaggio che alterna la storia del viaggio (non priva di momenti esilaranti) di questi intellettuali francesi (parte della critica d’oltralpe ha voluto vedervi l’ombra caricaturale dei vari Bernard-Henri Lévy, Philippe Sollers, Julia Kristeva, ma giustamente l’autore nega, anche per non passare guai...) con il diario di una donna che vive  nel neo Impero. L’autrice del diario, un'infermiera, “sa” cosa deve fare per essere una brava militante ma “sa” anche quanto sia astuto il condizionamento che dall’alto pretende di ridurla a una serva del regime. Sarà anche per questo, perché la voce è costruita da un uomo, ma un romanzo potenzialmente esplosivo è in parte disinnescato da una disposizione didascalica, “esterna”, che l’ironia non riesce a nascondere. La faccenda è scoperta. Per dare un’idea, a pagina 20, la narratrice ritorna al momento della presa di potere delle donne a L’Aia, ubriache (eppure l’alcol verrà vietato, fatti salvi i privilegi della nomenklatura…), che si lasciarono andare a eccessi indicibili, “ebbre della loro potenza, braccando gli uomini”… E aggiunge:”questo non lo sentiremmo certo raccontare in televisione”. Esattamente come in qualsiasi dittatura più o meno totalitaria, ma scritto da un uomo la rivelazione in realtà appare, come usava dire fino a qualche tempo fa, “telefonata”… Manca in un certo senso la sorpresa, il valore aggiunto dato dalla scoperta di qualcosa che avremmo faticato a intuire. 
Detto dei limiti, il romanzo è godibile, la satira intelligente, gli intellettuali esagitati che vanno alla scoperta del luogo “magico” - ovviamente un inferno - sono ridicoli secondo lezione fin troppo metabolizzata negli ultimi decenni. Credono di tenere in tasca la verità, si entusiasmano per i motivi sbagliati, distinguono da savi il bene dal male, e quando complicano il codice lo fanno senza grandi necessità etiche o logiche, mostrando uno zelo rivoluzionario messo in crisi qua e là solo dal capriccio (sono intellettuali un po’ en artiste – eccetto le capesse iperfemministe: quelle sono le solite stronze e basta). Quando arrivano in Belgio, qualcuno di loro è scioccato dai metodi rudi delle soldatesse, locali “forze dell’ordine”, le femministe al seguito invece sono febbrili e non fanno un piega quando viene chiesto loro di consegnare orologi e macchine fotografiche. Altrettanto delle dirigenti, che non hanno bisogno eventualmente di esibire rudezza anche di mani, ma sono decisamente altere e carismatiche. Se ne accorge anche l'infermiera, per caso proiettata sui piani più alti della piramide in occasione di una celebrazione “di stato” in onore di Judith, figlia ed erede della Pastora Ingrid, papessa del regno di Viragoland, al cui culto è ovviamente immolato l’intero Impero. Un bell’avanzamento per lei, cui tempo prima avevano ucciso la madre, sospettata di aver tradito la Pastora, costretta a vivere in un regime di diffidenze, di spie appostate ovunque, qualcuna al corrente del fatto che la donna nasconde un figlio maschio in campagna.
Risultato del fanatismo progressista? Dinamiche poliziesche, censure di libri e giornali, divieti d’ogni tipo, inneschi psichici paranoici in virtù (si fa per dire) dei quali un bravo (brava) militante non deve farsi sorprendere da un mutamento in seno al regime (di opinione, di comportamento) perché dovrebbe intuirlo in anticipo da sé… Insomma, quel tratto che resta il più sinistro di ogni dispositivo totalitario, per il quale, passata la fase programmatica della violenza e del consenso, il lavaggio del cervello è arrivato alla conclusione “organica”: un’ideologia da connaturare all’individuo sì che il venir meno ai suoi dettami è pagato attraverso il più mortificante e suicidale senso di colpa. Il peggiore? Farsi passare per la testa che un maschio possa essere attraente, dunque altro dalla condizione di servitù cui è stato relegato. Ma agli intellettuali in trasferta interessa meno la verità che promuoversi come “esploratori” dell’utopia. Ne faranno un racconto non proprio fedele. Il romanzo di Quiriny più che ricordarci una stagione della storia occidentale, ci squaderna davanti un tipo d'"intellettuale" che conosciamo bene. E in fondo, non è colpa di Quiriny se un romanzo del genere non sia stato scritto da una donna.

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