19 set 2011

THE PARIS REVIEW – INTERVISTE VOL 3


su lankelot del buon Franchi

Il terzo volume di interviste dalla prestigiosa The Paris Review (edito da Fandango) a scrittori di primo piano della scena letteraria mondiale del secolo scorso - ma qualcuno di loro è ancora in attività – si presenta come un volume davvero succulento. Come ricorda la scrittrice canadese Margaret Atwood, responsabile dell’introduzione, la rivista “si propose fin da subito come la dimora degli scrittori di valore”, anche se, ai suoi inizi, negli anni Cinquanta “gli scrittori venivano considerati artisti marginali, ed erano rispettati solo se ce l’avevano fatta dal punto di vista economico”.
Non che oggi le cose siano cambiate, non so negli USA, di certo non da noi (magari  peggiorate). Le interviste qui presenti hanno un tratto comune che ne costituisce anche la peculiarità; magari l’occasione è “informale”, “i partecipanti magari mangiano e bevono, si spazientiscono”, ma la conversazione è sempre incentrata sul loro essere scrittori. E dunque, niente discorsi vaghi o solenni sul mondo, opinioni campate per aria su argomenti che non conoscono, ma piuttosto ragionamenti intorno a: tecniche, metodi, senso della letteratura. E vita personale che si intreccia con il lavoro (un po’ come succede nel libro di Ben Ratliff, Come si ascolta il jazz, pubblicato l’anno scorso da minimum fax, alle prese con una dozzina di musicisti).
In questo terzo volume della Paris Review, sono presenti anche poeti e saggisti, non solo romanzieri. E non solo americani (Norman Mailer, a proposito: “L'America? "Un europeo sa esattamente cosa s'intende per cultura. Ce l'hanno nella loro architettura e nelle curve delle vie, noi abbiamo stradoni dritti perché è il modo più veloce per arrivare al mercato"). Da Chinua Achebe a Isak Dinesen, meglio conosciuta come Karen Blixen, da Ted Hughes a Salman Rushdie, il materiale è ricco, interessantissimo, prezioso per scrittori e lettori forti. Ci sono molte sorprese e qualche cosa nota. Le idiosincrasie di George Simenon, per esempio. Che non sopporta “la frase che è lì solo per la frase”. O gli aggettivi e gli avverbi di troppo: nemmeno a parlarne. Sapevamo della costruzione dei suoi romanzi a partire da elenchi telefonici e piantine della città, dai nomi dei personaggi e dalla loro età. E sapevamo che la revisione di un romanzo per lui significava tagliarlo il più possibile. Che “scrivere è una vocazione all’infelicità”. Sapevamo della vita monacale durante le due settimane (sole!!) necessarie a scrivere un romanzo, con tanto di visita del medico alla fine per controllare lo stato di salute. Ovvia poi la considerazione che la letteratura oggi (ma ormai è mezzo secolo fa) non possa dare una visione confortante dell’umanità, ma, anche questo è noto, le convinzioni di Simenon, che non era un teorico, erano poche ma solide.
Più sorprendente, a maggior ragione di questi tempi in cui per la stampa italiana esistono solo scrittori grandi o falliti, che Ralph Ellison, l’autore de L’uomo invisibile, si schermisse per aver vinto nel 1953 il National Book Award, visto e considerato che riteneva il suo solo un “tentativo di grande romanzo”. Capace di confessare, prima e al netto delle particolari difficoltà dovute al suo essere nero, “il sospetto che tutte le sofferenze insite nel processo di scrittura abbiano origine dalla smodata voglia che lo scrittore ha di essere apprezzato”.
Tutt’altro tipo Evelyn Waugh, che ostenta un surcilioso disprezzo per la critica, e per Faulkner – evidentemente fuori della sua portata. Martin Amis, uno dei migliori scrittori viventi, seppure discontinuo come testimonia il non riuscitissimo ultimo romanzo tradotto da Einaudi La vedova incinta, è peraltro un esempio inconsueto di figlio che invece di essere schiacciato dalla presenza ingombrante del padre (Kingsley Amis ha un suo ruolo nella storia della letteratura inglese del secolo passato), lo ha persino superato. E Martin rivela che l’affare sia stato un problema più per Kingsley che per lui – aggiungendo che di solito, di fronte a un giovane “emergente”, gli scrittori, lui compreso, facilmente provano “un certo risentimento” a priori. La sensazione che ti stiano scalzando, che magari abbiano da dire sullo stato delle cose, sul mondo contemporaneo, più e meglio di te, procura un certo fastidio. La trama per lui conta solo nei gialli, la scrittura è tutto (“la struttura della frase inglese”), ma non meno interessanti sono spesso i suoi personaggi (divertente la notazione che fa a proposito dei suoi lettori, quando presentando un suo libro assieme a quello di un altro scrittore, riconosce nella fila che si avvicina a lui individui un po’ loschi, “dallo sguardo allucinato” – come sono spesso i suoi personaggi, appunto).  Un sostanziale disinteresse per la trama lo dichiara anche John Cheever (del quale la stessa Fandango ha tradotto diversi libri negli ultimi anni): “La trama implica un sacco di stronzate. È un tentativo calcolato di mantenere l’interesse del lettore sacrificando il convincimento morale”. Il che, aggiunge l’autore del Falconer, non vuole dire voler esser noiosi o fregarsene del lettore: consiglio di chi scrive, se non lo avete ancora fatto, leggetelo, e anche queste interviste: appartengono al genere delle cose essenziali – metteteci dentro anche Carver, Pinter, Joyce Carol Oates e ne avrete un’idea.

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