3 ago 2010

L’antiretorica di Beppe Fenoglio



Scrivevo giorni fa dei brevi saggi raccolti in italiano nel volume minimum fax Nel territorio del diavolo, una pubblicazione di qualche anno fa, della straordinaria Flannery O’Connor. Ricordavo che per lei la narrativa ha da fare con i sensi e la materia giacché essa “è un’arte basata sull’incarnazione”: personaggi in situazione, dall’azione drammatica dei quali lo scrittore tenta di approssimare il nucleo d’irripetibile individuale verità. Non spiegando e interpretando dall’esterno, ma “guardando fisso le cose”.
E’ ciò che fece Beppe Fenoglio nello splendido Una questione privata, racconto di ambiente resistenziale ma svolto al netto di qualsiasi faciloneria, il caso di dire, partigiana. Fenoglio fu combattente, ufficiale di collegamento con gli Alleati, e aveva chiaro l’altissimo senso morale e il valore politico di ciò che stava facendo (non abbiamo l’equivalente nella nostra storia precedente – e successiva meglio tacere - quanto a dignità di un popolo e partecipazione dal basso), ma sapeva altrettanto bene che la letteratura non si riduce a slogan né a esercizio di articolazione delle proprie ragioni.
Una questione privata è un racconto nel quale, nonostante l’amarezza di fondo - il partigiano Milton, badogliano che ha l’incauta idea di tornare nei luoghi in cui nacque il suo amore per la giovane torinese Fulvia, viene a conoscenza della probabile relazione fra la ragazza ed il suo amico Giorgio, anch’egli partigiano, e  nel mezzo della guerra si mette alla sua ricerca per conoscere la verità sino in fondo –, attraverso un’arte ineguagliata della descrizione palpita una fisica plasticità che ha pochi paragoni nella letteratura italiana.  Milton, immerso in un fango «giallo come zolfo, tenace come mastice», si muove in un paesaggio invaso continuamente da una nebbia spessa, che “intasava i valloni e si stendeva in lenzuola oscillanti sui fianchi marci delle colline”, poi “formava spessori concreti, una vera e propria muratura di vapori” o anche “un mare di latte, rimescolato in fondo da pale gigantesco e lentissime” – e via di questo passo, attraverso decine di pagine di straordinaria densità espressiva.
In questi casi si dice che il paesaggio è un personaggio. Io direi che queste Langhe in cui “Milton ha sempre la sensazione del cozzo e della contusione” sono la storia – quella del libro, s’intende. La dimostrazione che per chi ha occhi per vedere la natura può farsi essa stessa racconto. Ché è da un dentro fisico, da uno spazio materiale e sensoriale che noi viviamo queste nostre vite in transito. Occorre saper vedere sì, avere il senso del ritmo che aveva Fenoglio, sulla pagina, e la lucidità (è più la lucidità che il sentimentalismo terreno buono per la poesia) di riconoscere che le buone e ottime e fondamentali ragioni storiche non impediscono a un uomo di trovare in un altrove, un amore definitivo e infelice il cuore della propria esistenza, di innescare un meccanismo di fuga che non è irresponsabilità ma adesione alla verità delle cose - in letteratura, oltre le poetiche, anche quella di programma che si chiamava neorealismo. Tanto che la morte Milton va a rischiarla non per uccidere un fascista o un tedesco ma per ritrovare l’amico che chiudeva il beffardo triangolo amoroso. Del resto è questo il grande libro di Fenoglio, non Il partigiano Johnny, troppo programmatico nella sua ostinata e un po’ fredda ricerca stilistica. Laddove la scrittura di questo romanzo breve è a tratti straordinaria eppure emotivamente intensa, capace di restituire tragica evidenza alle cose, di saggiarne il sapore e di ascoltarne i rumori – corpi che pesano, sensibili. Vivi nell’inevitabile sfida a un destino tutt’altro che scontato. Uno dei libri migliori del secondo Novecento italiano

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