23 giu 2010

Agorà, il brutto dell’avere ragione.






Ultras come talebani d’epoca – si chiamavano Parabolani, sempre in bilico  come succede non di rado nel Cattolicesimo sul crinale che separa la stupidità dalla protervia, con la Croce bene in vista, in questo polpettone fumettistico, Agorà, diretto dall’incerto Alejandro Amenábar.
La forma-macchietta è in parte necessitata dal soggetto - non Ipazia evidentemente, astronoma, matematica, filosofa “insegnante di strada” interprete del Neo-platonismo, che qui fanno temo un po’ troppo bella (l’attrice è Rachel Weisz) e crucciata fra cerchi ed ellissi come una padrona di casa che non sa come sistemare tavolo e posate per gli ospiti – non lei, ovvio, una delle migliaia di vittime dei tiranni che hanno parlato e legiferato in nome di Dio (qualcuno mi sa dire se conosce una parola più pesante di questa, “Dio”?); la tragica macchietta è quella dei servi di quei tiranni, solerti nel far schizzare sangue altrui sui muri di palazzi che dovevano essere splendidi, di pagani innanzitutto, non disdegnando lo squartamento di budella di opposti servitori del Signore, un altro, va da sé, non meno gravoso, non meno incazzato – questi Dei in versione monoteista avendo in comune un certo animo avvelenato, bisogna dire.
Il film, accampato nel solito rassicurante formato kolossal, illustrativo, kitsch (fatto caso che la parola è in disuso? forse perché è stato sdoganato definitivamente e sottratto al ludibrio dai Baricco, Giordano e Adelphi in caduta libera scambiati per letteratura?) vorrebbe poi farsi prendere sul serio quando ci mostra la fascinosa Ipazia nel corpore vili delle sue speculazioni. E proprio non ce la fa.
Di interessante, volendo, emergerebbe certa psicologia cattolica, anch’essa oggi trascurata dal “dibattito pubblico”: la lezione nietzscheana dell’omino risentito, impotente o mal attrezzato (non soccorre alla bisogna la verifica empirica dell’impazzimento pedofilo di canoniche sparse a ogni latitudine?), intimamente orientato verso una naturale schiavitù più che al libero esercizio del pensiero. Lo schiavo personale della scienziata infatti vede nel Cristianesimo la possibilità di sottrarsi alla sua condizione, ma intimamente resta invischiato in una colluvie di idee e sentimenti torbidi, violentissimi. Che sia inventato, lo schiavo, non è il fallo peggiore dell'a tratti risibile ricostruzione storica.

Epperò di questa coraggiosa figlia di Teone d’Alessandria, con il quale nella leggendaria biblioteca sottrassero l’opera di Euclide all’obio, l’unica matematica di cui si ebbe contezza per un millennio, della quale scrisse Leopardi, che Raffaello volle dipingere nella maschilissima “Scuola di Atene” dei Palazzi Vaticani  sotto le sembianze dell’efebico Francesco Maria della Rovere, nipote di papa Giulio II, per sottrarsi all’ira dei cardinali, dislocandone la figura in una zona più defilata rispetto al progetto originario, di questo personaggio formidabile insomma Amenabar ci offre una versione da fiction televisiva, tanto più pecoreccia quanto più patinata – una plastica digitale tardo hollywoodiana, impregnata di ridicolo sangue di teste mozzate rese vieppiù gratuite dal fatto che i Parabolani quelli veri, aizzati dal Vescovo Cirillo (uno che hanno fatto santo, perché si sa, quanto al peggio, la Chiesa non si fa mai mancare niente) la donna la squartarono viva con conchiglie affilate (o gusci di ostriche, stiamo lì) laddove nel film viene solo soffocata dallo schiavo innamorato e lapidata quando è gia in volo per l’aldilà – non il paradiso evidentemente (fra le tante cose che Madre Chiesa non ci ha ancora spiegato è che cosa succede alle anime sfigate per le quali essa ha chiesto scusa secoli dopo avendo commesso un errore di valutazione in vita: si è fatto in tempo a sottrarle all’Inferno o chi si è visto si è visto?)
Pare che il ritardo nella distribuzione del film sia dovuto ai malumori del Vaticano (stanno sempre neri da quelle parti). Ha ricordato di recente Umberto Eco come durante l’Udienza Generale del 2007 Papa Benedetto XVI abbia fatto “un ritratto a tutto tondo di Cirillo, omettendo proprio l'episodio dell'assassinio di Ipazia raccontato nel film: evidentemente nella Chiesa c'è dell'imbarazzo”.
Eccessivi, come sempre, dalle parti di via della Conciliazione. Zelanti nei momenti sbagliati.
Ma vale la reciproca. Film così ottengono l’effetto contrario a quello  perseguito dal regista che voleva contrapporre la liberà dell’esercizio critico al fondamentalismo dei soliti noti. Un messaggio così ovvio viene mortificato infatti da una scrittura banale, di cui si può facilmente notare il manicheismo, falsificata in ogni suo fotogramma – persino  da una colonna sonora improbabile, data in pasto agli spettatori corrivi che hanno bisogno di Dan Brown per fare i conti con secoli di brutte storie e menzogne.
Per questo scopo basterebbe far girare la notizia che Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia Università Lateranense, a proposito dell’ostia consacrata ricevuta da Silvio Berlusconi nel corso dei funerali di Raimondo Vianello ha dichiarato: «I divorziati che si sono risposati una seconda volta civilmente non possono accostarsi alla comunione.  Ma con la separazione dalla seconda moglie Berlusconi è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante”.
Fantastico no?
Be’, basterebbe sapere che c’è chi ha definito “sottigliezza dottrinale” questa uscita. Basterebbe invocare un po’ di zelo nei momenti giusti. Basterebbe rimandarli a scuola. Di logica, di pudore.

M


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