Singolare
esempio di musicista, Satie.
Definito
mediocre dal cattivissimo Adorno, introdotto con una certa ironia nei
manualetti di storia della musica, riscattato con insolita passione da John
Cage e ricicciato con molta disinvoltura da Brian Eno, Satie incarnò come pochi
lo spirito inquieto della Parigi di fine Ottocento e dei primi vent’anni del
Novecento, percorrendo un itinerario eccentrico, decifrabile solo per il suo
andamento falotico e discontinuo – cosa che fece mirabilmente A. Guarnieri
Corazzol in un bel libro fuori catalogo edito da Marsilio, nel 1979 “E. Satie,
tra ricerca e provocazione”. La monografia svolgeva l’esperienza composita
dell’autore delle Gnossiennes in tre
momenti fondamentali, registrabili attraverso una rigorosa analisi delle
partiture e un ricco inventario critico-storiografico che scortava sapide
implicazioni culturali. A un primo momento misticheggiante, Satie ne accompagnò
un secondo più popolare e un terzo umoristico e dada.
Di
questa sostanza una e trina, il lettore curioso e non totalmente rincoglionito
dalle odierne querelles fondate sul
nulla del Premio Strega, può farsi una divertente idea sfogliando – se ha la
fortuna di trovarlo – Quaderni di un mammifero, volume intelligentemente messo su da Ornella Volta
con il beneplacito del non ancora declinante Roberto Calasso, anno 1983.
“Monsieur
le Pauvre” infatti non scrisse alcun libro ma la Volta si prese la briga di
riordinare e assemblare quattromila bigliettini sparsi e ritrovati nella casa
di Satie dopo la sua morte (assieme ai sette ombrelli ancora incellophanati che
lui non apriva nemmeno sotto la pioggia per non rovinarli). Lo stesso titolo fu
rubato all’autore da una rubrica che teneva per diverse riviste dell’epoca. Il
materiale, accumulato con irridente nonchalance, è fatto di riflessioni più o
meno svagate sulla musica coeva, commedie liriche, folgoranti boutades e articoli effimeri sugli argomenti più
disparati, nonché autoinviti a
improbabili cerimonie di cui il musicista era il solo partecipante.
Perché
leggerlo, allora? Perché il segno distintivo di questa prosa ludica è uno
humour spiazzante, mai cameratesco o gruppettaro ma sempre da un’altra parte
persino rispetto a se stesso. Nel pieno bric à brac delle avanguardie storiche,
Satie se ne infischia delle conventicole, seppur iconoclaste. La sua
intemperanza non è d’ordinanza, l’autoironia qui non è un vestitino da salotto,
né soffre della sterile e postmoderna contaminazione dei linguaggi – come
recitano le note di copertina, “Satie possedeva un’eccentricità profonda che va
ben più in là di quella, sempre un po’ militaresca e squillante, delle
avanguardie che lo circondavano”. Insomma, Satie paga di persona. E come
avremmo imparato da Sandro Penna, chi è diverso, lo è sino in fondo. “Signore,
lei non è che un culo, ma un culo senza musica”, scrisse Satie a un critico
mediamente dotato cioè pochissimo nel 1917. Un tribunale lo condannò.
Non
era più tenero con gli amici, se necessario – e parliamo di Debussy, di
Cocteau. Nonostante il tono spesso caustico delle sue invettive, preferiva però
dire la propria giocando, come fa con un altro critico-censore prendendolo per
i fondelli con un finto panegirico - Ravel lo definì un bambinone. Si difendeva
bene, insomma, eppure traspare qualcosa di immensamente amabile in quest’uomo
solo e musicista singolare. Dall’ovvio, scarno frammentismo della scrittura e
quello meno scontato della sua musica, emerge una modestia rara. Antiromantico,
antieroe, distante anni luce dall’artista drammatico e quasi mitico (il tipo
Wagner diciamo), antiaccademico d’istinto prima che di programma, Satie segue
il proprio capriccio e se ne infischia della “società stretta” degli addetti ai
lavori. “J’emmerde l’art”, scrive, lui, autore di musiche bellissime (ancorché
forse semplici e prive di strutture poderose).
Impossibilitato
a legarsi a qualcosa, o a qualcuno, negato a una vita sentimentale,
passeggiatore incredibile, eretico discepolo dei Rosa-Croce, disgregatore di
dogmi e, avrebbe detto Jarry, di rovine, Satie è un unicum nella storia della
musica, e, direi, dell’espressività umana. Il libro aiuta a farsene un’idea. Di
che cosa può significare un’antiretorica umiltà, per esempio – che nulla
concede al gusto dei più e nemmeno si glorifica di segni fastosi. Più che
iper-razionalismo o intellettualismo come hanno voluto credere molti esegeti,
in quest’assenza di clangori assordanti e presenza viva, sempre all’erta, di
un’intelligenza acuminata sembra di intravedere la storia di un’anonima
tragicità – musica, idiosincrasie e scrittura intrecciate in un’esperienza da
custodire nel proprio bagaglio dei bei ricordi, delle belle e buone cose di una
vita.
Edizione
considerata
Adelphi 1980
,
a cura
di Ornella Volta
pp. 368