6 apr 2010

Erik Satie “Quaderni di un mammifero”







Singolare esempio di musicista, Satie.
Definito mediocre dal cattivissimo Adorno, introdotto con una certa ironia nei manualetti di storia della musica, riscattato con insolita passione da John Cage e ricicciato con molta disinvoltura da Brian Eno, Satie incarnò come pochi lo spirito inquieto della Parigi di fine Ottocento e dei primi vent’anni del Novecento, percorrendo un itinerario eccentrico, decifrabile solo per il suo andamento falotico e discontinuo – cosa che fece mirabilmente A. Guarnieri Corazzol in un bel libro fuori catalogo edito da Marsilio, nel 1979 “E. Satie, tra ricerca e provocazione”. La monografia svolgeva l’esperienza composita dell’autore delle Gnossiennes in tre momenti fondamentali, registrabili attraverso una rigorosa analisi delle partiture e un ricco inventario critico-storiografico che scortava sapide implicazioni culturali. A un primo momento misticheggiante, Satie ne accompagnò un secondo più popolare e un terzo umoristico e dada.
Di questa sostanza una e trina, il lettore curioso e non totalmente rincoglionito dalle odierne querelles fondate sul nulla del Premio Strega, può farsi una divertente idea sfogliando – se ha la fortuna di trovarlo – Quaderni di un mammifero, volume intelligentemente messo su da Ornella Volta con il beneplacito del non ancora declinante Roberto Calasso, anno 1983.
“Monsieur le Pauvre” infatti non scrisse alcun libro ma la Volta si prese la briga di riordinare e assemblare quattromila bigliettini sparsi e ritrovati nella casa di Satie dopo la sua morte (assieme ai sette ombrelli ancora incellophanati che lui non apriva nemmeno sotto la pioggia per non rovinarli). Lo stesso titolo fu rubato all’autore da una rubrica che teneva per diverse riviste dell’epoca. Il materiale, accumulato con irridente nonchalance, è fatto di riflessioni più o meno svagate sulla musica coeva, commedie liriche, folgoranti boutades e articoli effimeri sugli argomenti più disparati,  nonché autoinviti a improbabili cerimonie di cui il musicista era il solo partecipante.
Perché leggerlo, allora? Perché il segno distintivo di questa prosa ludica è uno humour spiazzante, mai cameratesco o gruppettaro ma sempre da un’altra parte persino rispetto a se stesso. Nel pieno bric à brac delle avanguardie storiche, Satie se ne infischia delle conventicole, seppur iconoclaste. La sua intemperanza non è d’ordinanza, l’autoironia qui non è un vestitino da salotto, né soffre della sterile e postmoderna contaminazione dei linguaggi – come recitano le note di copertina, “Satie possedeva un’eccentricità profonda che va ben più in là di quella, sempre un po’ militaresca e squillante, delle avanguardie che lo circondavano”. Insomma, Satie paga di persona. E come avremmo imparato da Sandro Penna, chi è diverso, lo è sino in fondo. “Signore, lei non è che un culo, ma un culo senza musica”, scrisse Satie a un critico mediamente dotato cioè pochissimo nel 1917. Un tribunale lo condannò.
Non era più tenero con gli amici, se necessario – e parliamo di Debussy, di Cocteau. Nonostante il tono spesso caustico delle sue invettive, preferiva però dire la propria giocando, come fa con un altro critico-censore prendendolo per i fondelli con un finto panegirico - Ravel lo definì un bambinone. Si difendeva bene, insomma, eppure traspare qualcosa di immensamente amabile in quest’uomo solo e musicista singolare. Dall’ovvio, scarno frammentismo della scrittura e quello meno scontato della sua musica, emerge una modestia rara. Antiromantico, antieroe, distante anni luce dall’artista drammatico e quasi mitico (il tipo Wagner diciamo), antiaccademico d’istinto prima che di programma, Satie segue il proprio capriccio e se ne infischia della “società stretta” degli addetti ai lavori. “J’emmerde l’art”, scrive, lui, autore di musiche bellissime (ancorché forse semplici e prive di strutture poderose).
Impossibilitato a legarsi a qualcosa, o a qualcuno, negato a una vita sentimentale, passeggiatore incredibile, eretico discepolo dei Rosa-Croce, disgregatore di dogmi e, avrebbe detto Jarry, di rovine, Satie è un unicum nella storia della musica, e, direi, dell’espressività umana. Il libro aiuta a farsene un’idea. Di che cosa può significare un’antiretorica umiltà, per esempio – che nulla concede al gusto dei più e nemmeno si glorifica di segni fastosi. Più che iper-razionalismo o intellettualismo come hanno voluto credere molti esegeti, in quest’assenza di clangori assordanti e presenza viva, sempre all’erta, di un’intelligenza acuminata sembra di intravedere la storia di un’anonima tragicità – musica, idiosincrasie e scrittura intrecciate in un’esperienza da custodire nel proprio bagaglio dei bei ricordi, delle belle e buone cose di una vita.

Edizione considerata

Adelphi  1980 ,
a cura di Ornella Volta
pp. 368






Cerca nel blog