Finalmente uno scatto d'orgoglio a L'Unità. Beppe Sebaste dice al povero Francesco Piccolo il dovuto. http://www.unita.it/news/beppe_sebaste/96881/la_nebbia_del_buon_senso
riguardo a questo http://www.unita.it/news/francesco_piccolo/96787/si_assomigliano_e_non_lo_sanno
e io aggiungerei a quest'altro http://www.unita.it/news/francesco_piccolo/96484/il_suo_popolo_migliore_di_lui
o quest'altro ancora http://www.unita.it/news/francesco_piccolo/95377/nessuno_pu_essere_processato_in_tv
insomma, che Piccolo scriva tante cazzate e qualche orribile romanzetto, affari suoi, ma possibile che un giornale (di sinistra) debba concedergli lo sfizio di pontificare a cazzo, e che il cinema italiano non abbia nessun altro cui affidare le sue sceneggiature?
31 mar 2010
30 mar 2010
Tobias Wolff
Quell’anno a scuola
Einaudi 2005, Pag 241
Tanto per cominciare, non è una roba di tutti i giorni, specie di questi tempi, che si possa leggere un elogio dell’insegnamento, esibizioni retoriche e autoconsolatorie a parte. Invece accade con Quell’anno a scuola di Tobias Wolff, romanzo americano tradotto da Einaudi nel 2005, soprattutto l’ultimo capitolo dal titolo Professore.
Ma andiamo con ordine. Uno scrittore affermato si tuffa nella memoria della sua giovinezza, in particolare intorno all’anno 1960. All’epoca, il ragazzo è abbastanza problematico, rispetto ai suoi compagni proviene da una classe inferiore, si muove senza agio sufficiente in un ambiente fin troppo snob. E anche lui, come il Grove di Yates, ma in un contesto diverso, in un college di ben altre ambizioni, vede nella scrittura una possibilità di riscatto. Solo che qui non parliamo del giornalino scolastico, ma di vera letteratura. Difatti alla Hill School hanno deciso di invitare nientedimeno che il grande Hemingway a consegnare il premio per il miglior racconto scritto dagli studenti. Al nostro non sembra vero. Nonostante i toni molto educati e un décor nell’insieme più che compassato, la cosa lo manda così su di giri da suggerirgli uno scherzetto che sarebbe nulla rispetto alle planetarie truffe dell’odierno, bestiale capitalismo ma ci ricorda come la nostra vita si risolva infine in una storia singolare che è tutto ciò che abbiamo davvero da vivere: tessuta con il filo delle nostre irripetibili esperienze, piccole o grandissime che siano. Per il ragazzo ciò che conta è ottenere il riconoscimento che spera gli cambierà la vita, visto che gli arriverà dalle mani di uno dei grandi miti della letteratura mondiale. Orbene, la via che sceglie per raggiungere lo scopo è la più semplice e la più rischiosa. Perché invece di scriverlo il racconto, il ragazzo decide di rubare un vecchio testo altrui, con il prevedibile risultato di essere scoperto e per questo cacciato dalla scuola.
Il fatto è che niente è come sembra – ce lo ha insegnato la letteratura, appunto, prima degli altri. Nello specifico, e da un certo punto di vista, il ragazzo non ha plagiato nessuno, perché nella verità del racconto di cui si dice indebitamente titolare, nella sua onestà di scrittura ha trovato qualcosa che lo riguardava profondamente: una specie di bellezza compiuta, la giustezza di una parola che era come sepolta dentro di lui. Che ritiene perciò, e sinceramente, che fosse anche sua.
Così, il romanzo di Wolff, piano, qua e là un po’ lento, sembra la storia dell’attesa dell’evento, del concorso e dell’arrivo di Hemingway, ma la vicenda più che nell’epilogo rovinoso trova il suo interesse nel percorso che lo avvicina. E’ infatti una lunga iniziazione alla scrittura, alla scoperta del fatto che in essa si giochino destini che hanno da fare con questioni capitali: la verità, l’illusione, la menzogna. Tutto questo accade e non è cosa da poco, in una scuola, grazie fra gli altri a un insegnante che come il narratore non è un santo. Come lui ha ingannato gli altri. Come lui ha spacciato per proprio qualcosa che non è suo. Il ragazzo lo ha fatto con un racconto, lui con “qualcosa di molto più grande: (…) una vita che non gli apparteneva”. Perché il professore si era vantato di conoscerlo Hemingway, di essere suo amico. E nel momento decisivo, per uscire dall’imbarazzo non può che poco misteriosamente sparire.
Da quest’uomo veniamo a sapere che ha imparato molto dal suo mestiere. La possibilità di “essere più altruista, più attento e sincero” per esempio, ma anche che il corpo a corpo con i libri, davanti agli studenti, può risultare dannatamente vitale. Per esempio che è lì, nella scrittura, che ragazzi appassionati e insegnanti possono trovano il cuore delle cose. Che in una storia c’è sempre da imparare, per esempio che quando riusciamo a raccontare “veri esseri umani” prima o poi spunterà qualcuno che ce la farà pagare. “Le storie che devi scrivere ti faranno sempre trovare qualcuno che odia il tuo coraggio” si dice a un certo punto. “Se non succede, stai solo sfornando parole”. Considerando che anche il narratore, il romantico plagiario, dice di aver imparato da lui, una scuola del genere può essere davvero il centro del mondo. Il narratore – o lo scrittore empirico, Tobias Wolff – arriva al punto di dedicarlo proprio a loro, il libro, ai suoi insegnanti. Che poi uno scrittore possa essere un furfante, come tutti, del resto, o “Un vero bugiardo” - come recita un altro titolo dello stesso autore, dichiaratamente autobiografico - va da sé. Ma ai suoi libri, se sono buoni, ciò non toglie niente.
28 mar 2010
L'onda sulla pellicola
Nell’ufficio di Malerba in quel periodo di campagna
elettorale c’era un via vai di giacche e cravatte coi fermagli d’oro. Molte, e
riconoscibilissime, le vecchie teste di cazzo democristiane e socialiste che
nel ‘94 avevano infilato il preservativo, si erano chiamate forzaitalia e l’avevano
allegramente messo in culo all’altra metà del paese. Ma non solo loro. Il
bestiario comprendeva tutto l’arco parlamentare. Lasciavano i loro bigliettini
con la raccomandazione di distribuirli, ai prof in primo luogo, ma anche agli
studenti maggiorenni. Molto si diede da fare Torella, sedicente studente del
serale che Malerba aveva fatto iscrivere a febbraio grazie alle insistenze di Zampa,
amico suo, che la pregò di “non dar retta alle chiacchiere”, che non era vero
che menava palate a destra e a manca - no, pardon, solo a manca;
insomma, uno squadrista ripulito a metà e bisognoso al dunque di un minimo di
alfabetizzazione, o di un diploma per piazzarsi al comune. Atticciato come un
bullo cresciuto senza grandi aiuti dalla natura, lo ammorbava, a lezione alle
dieci di sera, con domande impossibili mentre Livio era lì a sfiancarsi per
cifre da non ridire, e ogni occasione era buona per far caciara a ufo senza un
minimo di logica o di senso. Quando Torella disse che se il saluto romano era
proibito bisognava vietare anche il pugno chiuso, Livio si rese conto che aveva
da fare con un drogato.
Livio
trovò uno dei suoi bigliettini elettorali su un banco. Dalla foto, dalla
verruca pendula del becco, a Livio parve di riconoscere nel padrino di Torella
un parlamentare galliforme, un meleàgride gregario e visibilmente guercio alla
cerca di un secondo mandato. Che cosa doveva fare, assistere in silenzio?
Una mattina stava facendo lezione in quinto. Al suo
solito, anche per tenere la classe sotto controllo, spiegava in piedi,
camminando. A un certo punto un sospetto gli trapassò il cranio come un belzebù
ballerino in miniatura. Si avvicinò alla porta, continuando a parlare. L’aprì
di scatto.
Malerba, appoggiata al muro, lievemente inclinata
verso la porta, accennò un sorrisetto. - Oh professore, ho preso una storta -
piegò la schiena e tirò su una gamba. - Qui, alla caviglia.
- Male? - fece lui.
Idioti, i sorrisetti, ma intimidatorî. Tutti e due.
- Che fa, sfotte?
Finita l’ora, sfilandoglielo garbatamente via dalle
mani, gli domandò cosa ci trovasse di “così interessante” in quel libro, Carnefici,
vittime, spettatori. Se lo avvicinò al muso. La smorfia fu quella di chi
sente un cattivo odore.
- Dovrebbe smetterla con la politica, professore. I
ragazzi non vengono a scuola per sentire comizi.
- Scusi?
- Ho detto che dovrebbe smetterla di fare politica a
scuola.
- Infatti, sto solamente facendo lezione, mica
propaganda a nessuno. O vorrebbe che saltassi anche il nazismo?
Krishna! Perché sprecarsi in una tenzone dialettica
con quel furfante in gonnella e non cercare una particina in un filmetto
stronzo qualsiasi che almeno si pagava l’affitto per sei mesi?
- Senta, mi risulta che lei ultimamente faccia
chiudere i libri e si mette a parlare di cose assurde. E’ vero?
- Quali
libri? Comunque. Diciamo che mi limito a spiegar loro quello che l’informazione
si guarda bene dal raccontare - disse, pensoso. E preoccupato perché neanche
come figurante lo tenevano più in considerazione. Lo consideravano una rogna e
basta. Uno che è pagato per fare l’applauso e infila le mani in tasca: dove si
era visto mai? Figurarsi se rimediava una particina da qualche parte. Per
questo non aveva interlocutori nella sua vita lavorativa a parte Malerba e
una monaca jettatrice.
- Per esempio il fatto che votano tutti è una iattura,
è questo che si preoccupa di spiegare ai ragazzi?
25 mar 2010
24 mar 2010
Lagioia su Busi
La presenza di Busi al reality (il cui vertice sta proprio nella sparata in cui la cecità dei censori ha visto offese al Papa e al Presidente del consiglio) è stata una cartina di tornasole capace di rivelarci a che punto è la notte del vero scontro di civiltà in atto da tre lustri in Italia. Due opposte specie antropologiche si contendono il dominio della penisola. Non cristiani contro mussulmani e non toghe rosse contro partiti dell’amore, ma coloro che affidano i propri argomenti alla corretta articolazione del linguaggio, al sillogismo, persino al paradosso – che del linguaggio è una delle possibili declinazioni – partendo dalla convinzione che un patrimonio condiviso esista (per esempio la voltaireana difesa della libera espressione delle opinioni con cui siamo in disaccordo), e quelli che al contrario usano le parole come altrettante onomatopee dell’anima, e cioè abbandonando nell’indistinto oceano della cieca, bruta e in fin dei conti violenta emozionalità (la propria) quei feti adulti di opinioni che sono gli istinti, e ai quali solo l’incubatrice del linguaggio può sperare di donare l’adultità della vita civile. Si tratta, insomma, degli analfabeti di ritorno. E la presenza di Busi all’Isola si può leggere come il seguente esperimento: cosa succede se in una vasca di individui pre (o post) linguistici viene immerso il pesce sempre più fuor d’acqua di un alfabeta?
Valter Binaghi - Ucciderò Mefisto
Questo piccolo libro di Valter Binaghi è
una dichiarazione d’amore. E fossimo in vena di slogan giornalistici
aggiungeremmo: Valter Binaghi è l’ultimo romantico. Che oggi suonerebbe
straniante non perché questo genere di affermazioni porti con sé la tracotanza
di un linguaggio da rotocalco seppure midcult. E’ che presa sul serio, la scena descritta
nell’affermazione è quella di un camminare a ritroso, un pensiero forte e
avventuroso che marca una differenza sensibile rispetto al regime del presentismo, dell’esperienza evanescente e consumistica cui
sembra voler soggiacere l’Occidente attuale – consiglio a tal proposito di
leggere gli ultimi libri di Massimo Rizzante o di Mario Perniola.
Il libro racconta la vicenda del professor
Blangé, scrittore che riesce ad avere fortuna quando si mette in moto un
meccanismo editoriale indifferente alla qualità dell’opera ma tutto teso a
individuare nuclei emotivi “di massa” – nel caso specifico, il tema oggi
davvero invasivo della “vittima”, declinato qui nella storia di una donna che
ha perso il bambino che aspettava. Blangé inizia a partecipare a incontri e
presentazioni astruse, anche estranee al mondo letterario in sé e contigue
invece ai casi variamente disgraziati di cui si nutre il pubblico – fino a
diventare, lui, una star della televisione. Liricheggiante, spiritualmente
ambizioso, Blangé si lascia prendere dal successo grazie alla spinta di uno
psicanalista del genere oggi molto in voga: di quelli che “liberati dalle
zavorre, afferra l’attimo, fanculo alle convenzioni” insomma il solito
repertorio nato in salsa freak e oggi splendidamente complice delle nostre
esistenze ridotte a edonistico spettacolo. C’è qualcuno che paga per tutto
questo: la moglie di Blangé, figura un po’ esile, preraffaellita quasi, forse
un po’ troppo devota, che vede venir meno la lealtà del suo uomo e lo scopre
invece amante di una sua studentessa – via facebook, è ovvio.
Non credo che Binaghi (che sospetto non
del tutto estraneo alla figura del protagonista) volesse fare del moralismo,
quanto piuttosto misurare attraverso il racconto il peso variamente
distribuibile fra responsabilità e presenza da una parte e narcisismo
spettacolare dall’altro. L’esteta Blangé si compiace infatti del suo amore vero
(la moglie) ma in fondo non sente quello che sente lei, il suo dolore lui lo
trasferisce nei libri che scrive ma in fondo gli è estraneo - la sua è una
sensibilità manieristica, appunto, un esercizio di stile. Fino a quando lei si toglierà
la vita e solo successivamente Blangé ripenserà la sua storia, rispondendo
attraverso l’unica cosa che conta davvero: l’azione. Ma l’azione qui è
paradossale: novello Faust, il nostro, prima di lasciarsi morire dal dolore,
farà fuori lo psicanalista Mefisto che gli aveva cambiato (e rovinato) la vita.
Non vorrei fare un torto a Binaghi,
blues-man di lunga data, ma la favola nera che racconta sembra uno scherzo –
musicalmente parlando. Il gioco metaletterario, l’agente di polizia che ragiona
sugli stilemi del noir, la satira sul sottobosco editoriale, gli inserti lirici
del protagonista alternati alla storia, tutto questo aggiunge un tocco, se mi
si perdona l’ossimoro, di drammatica levità al libro – tralasciando prodromi e
primi sviluppi, in età romantica lo Scherzo era una composizione strumentale che alternava a una
parte vivace, anche di carattere drammatico, un episodio lirico o malinconico.
Be’, il libro di Binaghi, tecnica e stile al servizio di un pensiero
controcorrente, è costruito più o meno così. Non sai se più azzardato o
coraggioso, di sicuro più sensibile al mito che alla cronaca, nel richiamare un
motivo così inattuale come quello dell’amore unico, assoluto, spirituale,
Binaghi percorre una strada ardimentosa. Anche se facessimo fatica a seguirlo,
nell’aerea e allucinata ricostruzione narrativa, Binaghi c’infila dritti dritti
nella domanda delle domande, che non è di che cosa parliamo quando parliamo
d’amore ma piuttosto, cosa resta di una vita che non è sognata sino in fondo?
21 mar 2010
No comment
Questo striscione allegramente esposto alla manifestazione pdl del 20 marzo annovera fra i tarocchi d'Italia, terzo da sinistra, Paolo Borsellino.
Poi ci tocca leggere il solito, soave Francesco Piccolo, che fa per la cultura italiana quello che fa il Partito Desolante, o Dolorante, o Deprimente non ricordo più, per la politica tutta. http://www.unita.it/news/francesco_piccolo/96484/il_suo_popolo_migliore_di_lui
Dario Voltolini
Ti sembra che le pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali rispecchino in modo soddisfacente lo stato della nostra letteratura (prosa e poesia), e quali critiche faresti?
Le nostre pagine culturali andrebbero chiuse.
Alcofribas 4 - Walter Cairo
Walter Cairo
Memorie sregolate
Fru Fru Editore Pag. 199 Euro 14,50
Personaggi flessuosi, mutanti,
inafferrabili, capaci di immedesimarsi in chiunque purché feroce, carogna e
malandrino. Sono tre amici, aspiranti attori, segaioli e pronti a tutto pur di
sfondare, sedurre e restare sulla scena, i protagonisti del nuovo romanzo di
Walter Cairo, Memorie sregolate.
Cairo, è noto, cambia pelle a ogni libro. Questo gli viene rimproverato come un
limite (di personalità, di credibilità) da alcuni; gli viene riconosciuto come
un merito (un segno di coraggio, di ricerca inesausta) da altri. Qui il gioco
gli ha preso la mano, visto che mai come questa volta i suoi personaggi
sembrano acclimatati in una riconoscibilità autobiografica abbastanza palese.
La verifica empirica non farebbe fatica a recuperare dati oggettivi che
potremmo agevolmente rubricare come caratteri dell’autore (fa di tutto per
farsi notare, il lettore lo sa): andare in televisione sempre e comunque,
imprecare contro i comunisti come se ancora il mondo ne fosse pieno, pretendere
il ministero dei beni culturali (anche il mio cane, debbo dire, quando ha visto
il signor Bondi, ha avanzato la sua candidatura. Al che gli ho detto, al mio
cane, gli ho detto guarda che il signor Bondi scrive poesie. Ha nicchiato, il
mio cane. Gliene ho letta una: ah be’, ha concluso ammosciando le orecchie).
Perdonate la lunga parentesi, ma come
diceva il compaesano Bonito Oliva, bisogna mostrare il corpo del critico. Del resto, se i materiali
narrativi s’impregnano di sostanza autobiografica, non si vede perché non debba
succedere lo stesso con quelli della critica. L’ossessione formalista ha fatto
harakiri con i deliri della semiotica, le recensionistica non si distingue
dalla reclame, tanto vale immettere sulla scena il travaglio biopsichico e
domestico dell’esegeta. Ci si mette la faccia e si risponde in prima persona.
Col che, la compenetrazione con l’opera ne guadagna. Si rafforza l’empatia e si
crea un rapporto di fiducia con il lettore. Sempre che l’opera lo meriti.
Nell’occasione, Cairo si divide in tre
e si rappresenta nel pieno dei suoi sforzi professionali, prima di raggiungere
i risultati mediatici che, sospettiamo, costituiscano ragione unica che lo
hanno tenuto in vita. Soprattutto gli esordi vengono raccontati con la trovata
di spezzettarli in un corpo triplice in realtà indistinguibile nei suoi singoli
segmenti. Cairo racconta come iniziò a sgomitare nel mondo del teatro
pretendendo di fare insieme l’attore il regista lo scenografo e qualsiasi altra
cosa compresa la cassiera en travestì, e di quando i genitori provarono senza successo a farlo interdire.
Fossimo stati più attenti, avremmo dato
loro una mano – se ne sarebbe avvantaggiato l’universo mondo. Tant’è, poiché
non smise di sgomitare, Cairo fece una discreta carriera dal teatro alla tv, e –
ma questo lo diciamo noi - poiché l’editoria si fida solo delle facce note,
soprattutto se di cazzo, qualcuno nell’indotto di Segrate gli propose di
scrivere un romanzo. Si maligna che con tutta la buona volontà Cairo non fosse
riuscito a superare le dodici pagine, poi un esercito di ghost writers avrebbe
concluso l’operina Eccomi, gente,
che alla prima uscita sbandierava la fascetta TERZA EDIZIONE, TRENTAMILA COPIE
VENDUTE IN UNA SETTIMANA. Lo scandalo della truffa, come i lettori
ricorderanno, invece di scandalizzare i benpensanti – poveri rimbambiti –
aumentò effettivamente le vendite fino alla scalata in classifica (poiché Cairo
veniva da Frosinone, si fece subito il parallelo “Cairo primo in classifica
come la sua Lazio”). Ne è passato di tempo da allora, e il nome e la faccia in
questione hanno perso parecchio dello smalto originario. Nel romanzo i tre
protagonisti prendono brillantemente ognuno una strada diversa. Nella realtà –
perdonate la parola desueta - la
sua carriera dopo anni di altalena fra tv, teatro e letteratura, sembra volgere
irrimediabilmente al termine. Cairo nasconde i capelli bianchi con tinte brune e ciuffi rossi che cadono
sulla fronte, ma ha dovuto ripiegare su un editore di piccolo cabotaggio. Per
chi fosse ancora curioso, il libro è lì, con qualche errore di grammatica di
troppo, è vero, ma del resto oggi come oggi gli editori non hanno tempo da
perdere, signori miei. L’importante è che si capisca. Fru fru editore, a
dispetto del nome, guarda al sodo e scommette sulla forza dei ricordi di questo
scrittore attore acrobata dello spirito, un po’ acciaccato, falstaffiano e
rubicondo, spompato e mai domo. Il vitalismo, anche quando si è più di là che
di qua, non smette di affascinare. Cairo ha fatto della vita uno spettacolo, e
dello spettacolo una vita di merda, ma anche questa è solo una sentenza dell’interprete.
Alcofribas
20 mar 2010
Italia allegra
Il suo capo ha detto che la Carfagna "ha le palle". Ne viene che Marrazzo non è l'unico a frequentare le trans.
16 mar 2010
Kafka e l'esigenza dell'opera
Molti anni fa, ne Lo spazio
letterario, il critico e teorico
della letteratura Maurice Blanchot, sottesa l'equivalenza di arte e
immaginario, o meglio, assunto il secondo come il luogo in cui, soltanto,
l'arte è possibile, e opponendolo alla realtà irriducibile delle ‘cose’,
mostrava come un singolare percorso di allontanamento da essa, ed esperienza
creativa dell'immaginario insieme, si compisse in modo esemplare nell' opera di
Franz Kafka.
Lì si giocava a un livello tragico,
ancora moderno, l’idea di un’autonomia radicale della parola poetica rispetto
ai supposti referenti 'empirici' che crediamo di riconoscere nel mondo.
Scriveva Blanchot: "La qualità della parola abituale è che capirla fa
parte della sua natura. Ma, in questo punto dello spazio letterario, il
linguaggio è senza intesa. L'arte, come lingua dell'immaginario, è quindi
rispetto alla realtà un altrove". E ancora: “Nella parola poetica non
siamo più rinviati al mondo, né al mondo come rifugio, né al mondo come insieme
di scopi”.
Prima di designare qualcosa, o dare
voce ad alcuno, le parole hanno il loro fine in se stesse. Se è così, l'opera
insomma inizia nel momento in cui l’io dello scrittore muore al mondo. E, se
tutto questo è vero, per nessuno vale come per Franz Kafka.
La lettura dei suoi Diari, avventura emozionante per molti versi, intanto
ci soccorre in questo scopo. In essi il 'destino di perdizione' del grandissimo
praghese mostra segni che suffragano la lettura di Blanchot. Kafka sapeva che
l'esperienza dello sradicamento era una conseguenza della pratica poetica, e se
dunque l'arte lavorava a una compensazione esistenziale, rappresentava però la
via di un possibile e definitivo abbandono del mondo.
Nei suoi Diari K. non racconta se stesso al modo vezzoso dei
romantico-decadenti, ma intesse un dialogo con la pagina che si configura
essenzialmente come il disperato tentativo di mantenere un contatto con una
individualità, la sua, che rischiava continuamente di sfuggirgli, di apparirgli
estranea non meno di tutto il resto. Il suo paradosso sta quindi nell'aver
usato come strumento 'mnestico' e/o
consolatorio quello stesso esercizio che può esser causa prima
dell'oblio: la scrittura. L'esigenza di salvazione è elevata: il suo nichilismo
è sofferto, mai recitato ad arte.
Epperò l’arte, l’immaginario, contemplano necessità inconciliabili con la sua
(in)capacità di vivere la vita ordinaria; e forse, aggiungerei, contaminano, in
ottemperanza alle leggi della finzione - che sono leggi di forma, di stile
(unici idoli di Kafka, che non a caso aveva eletto Flaubert uno dei suoi
massimi modelli) - la purezza “confessionale” di quella pratica chiarificatrice e memorialistica che risponde
al nome di Diari.
Essi si estendono per un arco di
tempo che va dal 1910 al 1923. Vi è spesso dispiegato un senso di sconcerto che
segue al "vago impeto della voglia di scrivere”. Cito, un po’ a caso,
frammenti del 1911: “Non riesco a capire e nemmeno a crederci. Vivo soltanto
qua e là in una parolina nella cui vocale, per esempio, perdo un istante la mia
testa inutile." O ancora, “Creativo soltanto nel torturare me
stesso".
Algebra impossibile, la scrittura in
Kafka è guarigione e causa della malattia, una specie di ossimoro ontologico
mai così lucidamente evidenziato in altri scrittori. Essa è perdizione e atto
sacrificale, seguita spesso dal senso di colpa di chi si convince in questo
modo di non adempiere alla 'Legge' (qui, più che la normativa religiosa del
pensiero ebraico, pare connotare i suoi dettami sociali - matrimonio, vita
comunitaria, etc). L’esperienza del mondo in K. è quella di un “vuoto
perfetto", intorno al quale egli vaga con la sola arma della parola. Le
note che testimoniano le ansie verso il mestiere, peraltro, abbondano, ma
l'urgenza dello stile, della qualità estetica, si sprigionano da questa
allegoresi della scrittura come tentativo tragico di comprensione delle cose.
Nei Diari la pregnanza di alcune immagini terribili e bellissime
lascia senza fiato, se pensiamo che sono scritte da uno dei tre o quattro
scrittori decisivi del secolo: “Questo mucchio di paglia che sono da cinque
mesi"; “In fondo sono un uomo incapace, ignorante, che, se non fosse
andato a scuola, sarebbe esattamente in grado di stare accovacciato in un
canile, di saltar fuori quando gli dessero da mangiare e di ritornare dentro
dopo aver ingoiato il pasto”.
Viluppo difficile da districare, il
caso K., non c’è dubbio. Scrivere per lui significa "saltare fuori dalla
fila degli assassini", ossia trovare un linguaggio da opporre a quello
degli abitanti del Castello.
Ecco perché, e Kafka insiste su questo punto anche nelle Lettere, l'opera richiede l’espunzione della vita, il
suo allontanamento: non solo una modalità dell'assenza, ma paradossalmente,
pure, la sola possibilità di intervento (interpretativo). Se la letteratura è
finzione, per Kafka essa è altresì linguaggio della verità (o, almeno, del
possibile), esercizio ermeneutico che libera lui dal mondo rivelandolo – ma mai sino in fondo: l’incompiutezza
narrativa è inevitabile.
Pure, Kafka afferma di voler “morire
in pace". Riconosciuta l'ineluttabile inadeguatezza al vivere, egli
confessa all’amico Max Brod che le sue opere migliori le deve alla provvisoria
capacità di “morire contento”;
non solo, dice di rallegrarsi nel descrivere situazioni in cui qualcuno sta
morendo. "Mi piacerebbe spiegare il senso di felicità che ho in me di
tanto in tanto, come appunto ora," (dice riferendosi allo scrivere); o
quest'altra, fulminante: "L’arte vola attorno alla verità, ma con la
precisa intenzione di non farsi bruciare". Una benvenuta leggerezza che
segnala uno scarto - forse, il segno autentico di una 'felicità del corpo’ che
eccede la pura dimensione conoscitiva per regalare estasi improvvise.
Narrare consente anche, attraverso la
rappresentazione, di illuminare la scena giocando con essa. Da un lato, lo scrittore imita Dio manipolando
mondi (e si arroga suoi
poteri: darsi la propria
morte infatti non è soltanto lo scacco di una vita fallita, ma pure
l'esplicarsi, se si vuole en artiste, della volontà di potenza, ridotta a questa singolare espressione).
DalI’altro, quest’“uomo pieno di uno stupore infinito" ci appare come
l'adepto di una strana dottrina nella quale la scrittura diviene una forma di
preghiera attraverso la quale accogliere, allo stesso tempo difendendosene, il
tramestio del proprio caos interiore: l'arte diviene "una difesa del
nulla, una cauzione del nulla, un soffio di gaiezza prestato al nulla”.
michele lupo
10 mar 2010
Mario Perniola e una faccenda molto seria: dumbocracy
apparso su http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=786
Miracoli e traumi della comunicazione
Libro molto interessante questo di Mario Perniola, che
segue di cinque anni Contro la comunicazione, sempre per Einaudi. Perniola,
filosofo appartato ma (o perché) attento come pochi, lamenta, secondo me a
ragione, che al suo pensiero non venga riconosciuto un adeguato valore
politico. Se la comunicazione è l'ambiente in cui viviamo, se essa consiste in
un linguaggio che rompe la mediazione critica e pretende di sottometterci alla
protervia dell'opinione, basterebbe guardare al nostro paese – caso eclatante
ma non unico al mondo – per inscrivere la critica stessa alla comunicazione nel
pensiero politico tutto. Questo atteggiamento infatti rimette in gioco, pensate
un po', l'idea stessa di realtà - oggi schiacciata in un presente privo di
qualsiasi discrezione e discernimento - e con essa le categorie del conflitto.
Da qualche parte Perniola ha scritto: che “o si sta dalla parte della comunicazione mass-mediatica e
allora il risultato sarà l'autodistruzione dell'Occidente: oppure si riattivano
orientamenti e tendenze che non sono risultate egemoniche (come l'Illuminismo) e allora c'è ancora qualche speranza”.
Miracoli e traumi sono i due poli tra i quali oscilla il
regime dell'odierna comunicazione, politica inclusa, per la quale Perniola si
avvale anche del termine anglosassone dumbocracy (predominio della stupidità, più o
meno) - inattesa e perversa declinazione della "sovranità" di Bataille.
Entrambi segnati dall'incredulità romanzesca, dall'assenza di lucidità critica, i miracoli (abbagli collettivi contraddistinti da “un'eccitazione assolutamente sproporzionata al peso degli avvenimenti”) e i traumi (riservati prima di tutto agli sconfitti del terzo mondo, ma non solo) impastano l'ultimo mezzo secolo della storia mondiale. Ciò che definisce davvero quest'arco di tempo è l'impossibilità dell'azione. Anche alcuni fatti straordinari (il Maggio sessantottino, la rivoluzione iraniana del '79, il crollo del muro di Berlino e l'attacco alle torri newyorkesi del 2001) secondo Perniola più che veri e propri avvenimenti responsabili di cambiamenti epocali sarebbero soltanto momenti formidabilmente comunicativi, buoni a segnare una “periodizzazione possibile”, uno schema attraverso il quale registrare la progressiva deriva irrazionale che sottrae la realtà alla possibilità di modificarla attraverso l'azione, nonché alla sua stessa intelligenza.
Entrambi segnati dall'incredulità romanzesca, dall'assenza di lucidità critica, i miracoli (abbagli collettivi contraddistinti da “un'eccitazione assolutamente sproporzionata al peso degli avvenimenti”) e i traumi (riservati prima di tutto agli sconfitti del terzo mondo, ma non solo) impastano l'ultimo mezzo secolo della storia mondiale. Ciò che definisce davvero quest'arco di tempo è l'impossibilità dell'azione. Anche alcuni fatti straordinari (il Maggio sessantottino, la rivoluzione iraniana del '79, il crollo del muro di Berlino e l'attacco alle torri newyorkesi del 2001) secondo Perniola più che veri e propri avvenimenti responsabili di cambiamenti epocali sarebbero soltanto momenti formidabilmente comunicativi, buoni a segnare una “periodizzazione possibile”, uno schema attraverso il quale registrare la progressiva deriva irrazionale che sottrae la realtà alla possibilità di modificarla attraverso l'azione, nonché alla sua stessa intelligenza.
Nel perverso intreccio di surrealismo de facto e tecnocrazia fantascientifica
che trasforma i fatti in miracoli inspiegabili da una parte, e nelle catastrofi
dei dannati della terra sussunti nella regione percettiva del trauma (e perciò
incapaci di reagire) dall'altra, la possibilità di comprendere la realtà sembra
venir meno. Infantilizzazione e presentismo sono la base, il terreno di
coltura adatto di questa incultura, una psicopatologia di massa alimentata da
fenomeni come la new age, l'azzeramento della memoria e l'indecidibilità della
stessa nozione di futuro.
Sulla convinzione di Perniola secondo cui i quattro eventi
principali dell'ultimo mezzo secolo sono stati “meno importanti di quanto
sembra a prima vista”, si potrebbe forse discutere. Certo, è vero che “nel 1968,
dopo lo sciopero selvaggio, tutti sono tornati a lavorare”; è vero che l'aura
simbolica di quell'anno non ha nei fatti anticipato o prodotto un mondo
migliore. Nemmeno per quanto riguarda la pretesa liberazione sessuale si può
parlare di vantaggi postumi - non molto di più di una provocazione mediatica,
per Perniola. Il mito dello spontaneismo e la banalizzazione edonistica della
sessualità non potevano mettere in crisi il capitalismo, che piuttosto se n'è
servito lasciando nelle macerie dell'utopia anche il cadavere di una modalità
dell'esperienza umana fondamentale: la seduzione.
L'età della deregolamentazione, quella che svilisce il
significato storico dell'insegnamento, della critica, e inaugura astruserie
come l'autovalutazione, e un esercizio pseudo-intellettuale di autonomia
solipsistica, in cui tutto è uguale a tutto, inizia con gli anni ottanta; si
tratta di una ripercussione patologica della comunicazione. Negli stessi anni,
Khomeini dà uno strappo al mondo islamico. Personalmente non sarei così sicuro
che “la rivoluzione iraniana non si è propagata a tutto l'Islam ed è rimasta
confinata in un solo paese”. Mi pare che la politicizzazione dell'Islam si
possa documentare anche altrove, mentre è certo che nel mondo musulmano il velo
per molte donne in quegli anni comincia ad assumere un imprevisto, ancorché
controverso, valore di resistenza alla mercificazione pornografica
dell'Occidente, e recupera il senso della seduzione di cui si diceva sopra.
Ora, è ovvio che per tenere le masse sotto scacco, l'ignoranza
deve farsi sistema – e la comunicazione dà una grossa mano alla bisogna. In
questa “selezione al contrario” delle classi dirigenti (non solo in politica),
analoga a quella di cui parlava Solzenicyn a proposito dello stalinismo, viene
promosso al vertice chi obbedisce al dominatore (e noi, dal laboratorio
italiano, potremmo dare lezioni al mondo) in un'escalation di demeriti che
regge fino a quando il sistema crolla perché non sa più far fronte alla realtà
– non sanno nemmeno presentare una lista elettorale. Nel frattempo i regimi
attraggono per la loro faciloneria populista, molto più seduttiva del
ragionamento critico (gli intellettuali dissidenti della Ddr, ricorda Perniola,
non avevano previsto che i loro connazionali sarebbero stato più attratti dal
trash consumistico che dall'idea di un “socialismo dal volto umano”).
Con l'11 settembre, scrive il filosofo, entriamo nell'età
della valutazione (“arbitraria e tendenziosa, iniqua e settaria”), che finirà
con il classificare l’intero genere umano attraverso i suoi gusti, i suoi
orientamenti sessuali etc. Ma l'effetto degli aerei sulle Twin Towers è stato
solo quello di indurre il mondo che si voleva libero a rinunciare a se stesso. “Se
nei decenni precedenti è stato possibile far credere qualsiasi cosa, ora è
possibile far subire qualsiasi cosa” - si pensi alla “guerra infinita” che ne è
derivata. Bin Laden in un certo senso ha vinto usando le stesse armi
dell'Occidente imploso: strategie comunicative. Prive, come si diceva, di
discrezione e discernimento. Come il metro attraverso cui oggi si decide il
valore di un libro: copie vendute, chiacchiera contingente, risultati chez Google. Attualità, presente che
corre veloce, senza senso e senza direzione. Qui ci occupiamo di letteratura, in primis. Ma è un filosofo che ci pone la domanda
fondamentale: Qualcuno scrive ancora libri per il futuro?
michele lupo
7 mar 2010
Maurizio Salabelle Il maestro Atomi
A scuola senza fare troppo le vittime
Chissà se è mai capitato a qualche studente
italiano di fare una gita scolastica in Giappone, per di più in compagnia non
del suo insegnante ma di un ispettore scolastico inviato dal ministero. Per poi
trovarsi coinvolto in una serie di situazioni assurde, come maneggiare
l’indecifrabile moneta locale il cui valore deve essere descritto attraverso
smorfie complicate e faticosi sospiri. Oppure di imbattersi in un bizzarro
supplente che si porta a scuola una pentola d’acciaio munita di una struttura
metallica collegata alla presa di corrente per dimostrare come dal “brodo
primordiale dell’ammasso di molecole disordinate ad un certo punto venne fuori
la vita”.
Il passo narrativo di Maurizio Salabelle,
scrittore prematuramente scomparso nel 2003, sembra sulle prime un po’
surreale, come la scuola che racconta, un istituto elementare con classi di 39
persone che cercano di arrivare in tempo in aula per non restare senza il
posto. Eppure il suo andamento avvince perché è in grado di percorrere con
vivida concretezza di fatti e personaggi un paesaggio sorprendente, tutt’altro
che gratuito, nonostante o forse proprio in virtù della natura paradossale
delle storie che racconta -com’è dei bravi scrittori.
Salabelle sembra andare oltre l’intuizione del
carattere mai definitivo che si nasconde nel mondo della scuola, il suo negarsi
sostanziale all’apparente tran tran che avvinghia i più in una morsa di noia o
sfiducia o stanchezza. Anche chi vi lavora da molti anni sa che in una mattina
qualunque può succedere qualcosa che non sarebbe potuta accadere da
nessun’altra parte. Ne Il maestro Atomi, senza mai farne “discorso” ma sempre e solo dentro il dispiegarsi del
racconto, non si tratta più di sorprese che interrompono la routine. La scuola viene reinventata totalmente, ricostruita
come un affatturato e insieme ironico universo guardato attraverso gli occhi di
un ragazzino, la voce narrante, davvero speciale.
Il romanzo, edito da Comix nel 1997, poi
rifabbricato per i tipi Casagrande qualche anno dopo, purtroppo non è
facilmente reperibile. Salabelle nella sua breve vita pubblicò anche con
Garzanti e Bollati Boringhieri ma era uno scrittore che non aspirava - suppongo
- ai grandi numeri. Basti pensare ai protagonisti degli altri suoi libri: un “alcolizzato
da vocabolario” (in Il mio unico amico), un “assistente che non assiste” (in Un assitente inafidabile) e via di questo passo, per cinque romanzi scritti
nell’arco di un decennio.
La sua era una narrativa purissima,
antiretorica, apparentemente in minore – sospesa a mio avviso fra Celati e
Robert Walser - ma niente affatto dimessa, con una sua strana grazia che
coniugava l’assurdo con una precisione descrittiva e soprattutto con una voce
narrante molto divertente. In questo romanzo simulava la cadenza di un’oralità fintamente
svagata ma di strabiliante esattezza. Un libro, fra i non pochi che nella
narrativa italiana sono ambientati fra le pareti di un’aula scolastica, che
resiste al tempo in virtù di una voce peculiare. Di lui scriveva Dario
Voltolini: “Della
sua voce un po' sommessa che non riusciva ad alterarsi alzando i toni, ma solo
e sempre deviando in direzioni poco prevedibili, ci rimane ora solo il versante
scritto, quella che siamo soliti chiamare «voce narrativa», come se ciascun
narratore ne avesse una per dotazione naturale. Invece solo pochi narratori
hanno una voce propria e riconoscibile nella pagina scritta, una voce che
identifichiamo in mezzo a qualunque folla, senza possibilità di errore.
Maurizio era uno di questi”.
I sei capitoli che compongono Il maestro
Atomi possono leggersi in qualsiasi
ordine, dando vita a 720 combinazioni possibili. Ma al di là dell’apparente
eserciziario postmoderno che sarebbe ormai privo d’interesse, e detto solo per
non scoraggiare coloro che dovessero avere la fortuna di trovare il libro e
dare un’occhiata alla quarta di copertina, possiamo piuttosto leggerlo come un
insieme di racconti. Sono storie fra il comico e il fantastico, tutte dentro
una scuola senza epoca inventata per rompere disinvoltamente con una tradizione
narrativa, il racconto fra le mura di un’aula scolastica, troppo spesso incline
al patetico e al vittimistico.
La stravaganza che cifra il libro non è mai compiaciuta,
o letteraria; è negli stessi personaggi: maestri curiosi, supplenti falotici,
studenti buffi e allarmati eppure composti come piccoli Buster Keaton. La
scuola insomma in questo libro disegna una specie di spazio onirico, tramato in
un tessuto di situazioni fantasiose ma serrate nella loro logica alternativa -
una specie di ragione parallela al mondo quotidiano, freddamente emozionata,
curiosa, come forse agli insegnanti piacerebbe vedere nello sguardo dei loro
studenti.
Un libro, uno scrittore lontani dai
volgarissimi spettacoli di oggi, che si tratti delle guerricciole per bande di
scrittori televisivi, o delle fiction sciapi innocue scontatissime
sulla scuola che solo tristissimi figuri di governo possono considerare
pericolose per la democrazia (nella dizione corrente e imperitura, malfamata,
di “comunisti”, va da sé).
michele lupo
6 mar 2010
Decreto salva-tamarri
Per favore, adottateli.
Gli italiani sono incapaci di badare a se stessi.
Gli italiani hanno bisogno di un tutore, spesso di un padrone. Di
solito se lo scelgono pessimo. Da Mussolini a Berlusconi, non c’è limite al
peggio. Il brianzolo morirà, checché lui ne dica, ma non passeranno vent’anni
che gli italiani ne sceglieranno uno anche peggiore – è vero, non è facile
immaginarlo, ma se l’umanità quando si tratta di dare il peggio è sempre molto
creativa, gli italiani battono tutti. Sfatiamo un luogo comune, ossia che
questo paese non conti nulla. Il fascismo lo hanno inventato qui, la
mediocrazia forse no ma nessuno ha saputo realizzarla come questo popolino che
ha pure inventato, non casualmente, il melodramma e la commedia dell’arte. Da
ridere qui non manca mai, ma nemmeno da piangere. Per il resto, non funziona
niente.
Gli italiani da soli non ce la fanno. Se proprio non potete
adottarli, commissariate il loro paese, il loro governo. L’Unione Europea si
faccia carico di questa sua bizzarra appendice. Assicuri alla giustizia l’ometto
col cerone sulla faccia e sistemi le sue scuole, i suoi ospedali e tutto il
resto - la testa no, da quella non si può cavare nulla. In cambio, quando
vorrete ridere, o piangere di commozione, sapete a chi rivolgervi.
2 mar 2010
Vaticano S.p.A
www.chiarelettere.it
Vaticano,
un’immedicabile patologia nel corpo d’Italia
All’origine di Vaticano S.p.A. di Gianluigi Nuzzi c’è un monsignor Renato Dardozzi, consigliere
della Segreteria di Stato della Santa Sede, deceduto nel 2003 dopo essere stato
per anni una delle figure chiave nella gestione delle finanze vaticane.
Dardozzi, forse deluso da mancati avanzamenti di carriera, forse schifato sic
et simpliciter da
ciò che aveva visto dalle parti dello Ior, la banca del papa, espresse volontà
testamentaria che tutta la mole di documenti che aveva accumulato in poco meno
di vent’anni venisse resa pubblica: si tratta di un archivio di oltre
quattromila fogli, lettere, relazioni, bilanci, verbali, note contabili,
bonifici che testimoniano senza appello i legami sinistri tra la finanza del Vaticano
e la politica italiana.
Tant’è che nessuno da quelle parti all’uscita del libro ha potuto smentire
alcunché, per la semplice ragione che era impossibile farlo. Di più, il
presidente dello Ior, Angelo Caloia, è stato finalmente costretto a lasciare
l’incarico. Prima però, pare che dal Vaticano abbiano offerto all’editrice
Chiarelettere grosse
somme di denaro (non gli manca certo, appunto) perché rinunciasse alla pubblicazione. Parliamo di
materiale che dovrebbe far sobbalzare qualsiasi cristiano metaforico e non in
qualsiasi paese del mondo - da noi no, ma questa non è una novità. Caso mai la
mancata esplosione della bomba testimonia per l’ennesima volta come il mondo
cattolico faccia un’estrema fatica a guardare con coraggio dentro i propri
affari – anfanando ancora e senza costrutto intorno a cervellotiche dottrine
che scellerati Concordati introducono nella scuola pubblica di un altro Stato
in versione catechistica grazie a insegnanti non di rado imbarazzanti nella
loro pochezza culturale. Purtroppo il male più insidioso è spesso quello che
viene da chi vi assiste passivamente. Così questi catechisti mascherati vengono
tollerati da colleghi quasi sempre ignavi, che non sai se per pigrizia o per un
vago senso di solidarietà professionale si guardano bene dal fare problema di una situazione accettata
acriticamente e in cui sono possibili – l’ho sperimentato di persona – esiti
aberranti. Lavoro nella scuola da molti anni e ho conosciuto diversi di questi catechisti
mascherati capaci di “spiegare” ai ragazzini un terremoto come una punizione
divina – esattamente come fanno nel mondo islamico più retrivo. Impunemente. Stipendiati da
noi tutti.
Un linguista, Edoardo
Lombardi Vallauri, studioso apprezzato, cattolico di lungo corso, capo scout
per vent’anni, ha scritto un libro un paio di anni fa, Capire la mente
cattolica, in cui
sosteneva che se si tratta di voler davvero capire le cose e andare sino in
fondo, un cattolico non dà molte garanzie. Di solito, non si tratta di
individui che spiccano per la loro onestà intellettuale. Ciò vale per le
astruserie dottrinarie come per il mai consumato dilemma “dio o mammona”. Detto
da uno che se intende. E in Italia stiamo sempre lì, al pre-illuminismo dei
chierici che decidono e legiferano per noi nonostante l’aberrazione di certi
pensierini come la vita imposta per forza di sondino alimentare, rianimazione
di feti abortiti, omosessuali equiparati a pedofili, insomma al Medioevo
clericale che qualcuno, innamorato perdutamente della Madonna però combattè a
carissimo prezzo sapendo quale fosse lo spazio pubblico riservato a Dio e a
Cesare – pensare che un pessimo cantautore specializzato in cazzate anni fa lo definì un “servo di partito”.
E’ anche vero
che se Vaticano SpA avrebbe potuto essere una bomba buona a far esplodere le
menti svogliate dei credenti nostrani e ciò non è successo, le responsabilità
di chi per vocazione storica si spererebbe più accorto, non mancano. Parlo
della stampa di sinistra, ovvio. Che invece non ha particolarmente brillato
nell’occasione, non so se per indifferenza, o perché qualcuno ha voluto vedere
dietro il libro un colpo basso di Berlusconi – timoroso che la Chiesa cedesse
alla tentazione di non appoggiarlo a dovere (vedere l’affaire Boffo). Purtroppo, non credo che
l’avventuriero di Arcore corresse – corra - davvero questo rischio. E’ vero che Nuzzi, l’autore di Vaticano
S.p.A., giornalista
in forza a “Libero” e a “Panorama, è prodigo di ringraziamenti per
l’imbarazzante figuro che porta il nome di Maurizio Belpietro; che quando
scrive di Mangano e Dell’Utri fa parecchio il sofista, e che nella mala impresa
che racconta – in un arco temporale che dall’epoca del vescovo Marcinkus, qui
fuori scena, a oggi non ha conosciuto significativi momenti di ripensamento -
sorvola alquanto sullo speriamo caduco presidente del Consiglio, come se non
fosse qui a dettare legge ma disperso in un’isola di un altro universo. Su
Berlusconi, insomma, Nuzzi tace. Ed è anche vero che quando gli eredi di
Dardozzi hanno dovuto decidere a chi affidare il materiale sono stati attenti a
non farlo cadere nelle mani di qualche anticlericale militante (ce ne sono
ancora? scriveteci!). Insomma, qualche indizio a carico dell’ipotesi di colpo
basso del padrone, ci sarebbe pure. Tuttavia, i documenti qui presenti si
collocano fuori da ogni possibilità di smentita e quali siano le ragioni della
loro pubblicazione, essa resta. E avrebbe dovuto essere sufficiente anche alla
stampa di sinistra. Manovra o meno dell’allegrone brianzolo, i documenti di Dardozzi sono
stati ricostruiti da Nuzzi secondo una logica, anche narrativa, che regge alla
lettura nonostante l’oggettiva mancanza di entusiasmo che procurano dati, cifre
e sequenze di operazioni finanziarie. Il periodo implicato riguarda la
gestione dello Ior da parte di De Bonis - un prelato abile con il denaro sporco
non meno di Sindona -, una gestione più criminosa di quella di Marcinkus (uno
che diceva che “la chiesa non si amministra con le ave marie”), liberandosi del
quale la Chiesa romana venti anni fa cercò di darsi una sciacquata all’immagine
compromessa dal brutto affaire Ambrosoli - Banco Ambrosiano - P2 – Calvi etc.
Ora, quello che è successo allo Ior, non sarebbe stato
possibile all’interno di una banca di un qualsiasi altro stato europeo -
almeno, non nelle forme, nelle modalità e nelle quantità che qui si possono
apprezzare. Nello stato teocratico che ci ritroviamo quale non gradito ospite
di là dal Tevere, la banca non risponde a nessun tipo di controllo, non
aderisce a nessuna normativa internazionale che controlli i flussi di denaro e
non può essere perquisita. Alla magistratura italiana - chiedere a Di Pietro e
a Gherardo Colombo dove s’impantana Tangentopoli - per intervenire servono
rogatorie internazionali che naturalmente i nostri governi non hanno mai
sollecitato con forza, e ad esse le gerarchie vaticane si guardano bene dal
rispondere se non con lacunosa riluttanza. In nome della missione terrena del
Vicario di Cristo e dei suoi Pastori, lo Ior in questi anni non ha mancato
invece di accogliere a braccia aperte chi in Italia cercava un luogo per
investire danaro di dubbia provenienza, senza il bisogno di ricorrere a chissà
quale esotico paradiso fiscale trovandone uno così comodo e sicuro dentro Roma.
Monsignor de Bonis e i suoi amici sono stati capaci di imbastire spericolati ma abilissimi
giochetti di prestigio che hanno permesso di smistare ingenti quantità di
denaro: quello piovuto a pioggia dalla maxi tangente Enimont, quello legato
alla longa manus
di Andreotti – omissis, in codice -, a manovre politiche più mafiose che no, al riciclaggio
per conto dei corleonesi, dell’ex sindaco di Palermo, Ciancimino, oggi grazie
(?) al figlio al centro di nuove indagini intorno alle trattative mafia-stato,
alle collusioni profonde con Gelli e la P2. Nel libro ci si concentra
soprattutto sul conto bancario aperto negli anni '90, intestato fittiziamente
alla fondazione Spellman, dietro cui si celava il senatore Giulio Andreotti. Su
quel conto sono transitati decine e decine di miliardi, operazioni finanziarie
disinvolte, come quelle che avrebbero dovuto favorire la nascita di un nuovo
grande partito di centro dopo la morte della Dc, e ancora malversazioni
decennali, lasciti oscuri, appropriazioni indebite, lavaggio di denaro
tangentizio che entra con un brutto fetore criminale e riesce fuori nei conti
privati di delinquenti di governo “più bianco che mai”. E ancora, depistaggi e
deviazioni improvvise di soldi, comprese offerte dei fedeli, ufficialmente destinati
a messe per i defunti e ad aiuti per i bambini poveri, che prendono la strada
per Montecarlo. La torre che custodisce il forziere dei cardinali ha mura
spesse 9 metri ed è di facile accessibilità, come ricorda Nuzzi. Per entrare
nello Stato Vaticano e quindi nella banca, basta presentarsi all'ingresso di
porta Sant'anna con una ricetta medica. Eccola, la manna caduta dal cielo,
al centro di Roma. Peraltro,
se la pubblicazione del libro di Nuzzi fosse una manovra architettata secondo le riferite
illazioni di cui sopra, considerando che il presidente Caloia è stato fatto
fuori, avremmo un altro colpo di scena: il Vaticano avrebbe fatto una bella
figura (non è facile) dimostrando finalmente la volontà di fare chiarezza,
salvo insediare al posto di comando dello Ior un uomo dell’Opus Dei, vicino a Comunione
e Liberazione ossia a un eventuale ahimé
non impossibile futuro governo Formigoni. Bello scenario, no?
In ultimo, se qualcuno
si fosse nel frattempo fatto venire la curiosità: la risposta è sì - nonostante
i commentatori si siano guadati bene dal notarlo -, Wojtyla venne più volte informato di ciò che
succedeva. Il papa polacco era a conoscenza del gran traffico di denaro sporco
che circolava e si smistava a casa sua, anche perché da quei canali provenivano
pure i soldi che servivano a Solidarnosc per spazzare via il comunismo dalla
faccia della terra. Wojtyla si guardò bene dal rimuovere qualcuno dal proprio
incarico. Un santo padre - è mestiere suo - ha una buona parola per tutti.
P.S
Sul sito dell’editore
chiarelettere.it è possibile consultare tutti documenti contenuti di Vaticano
SpA
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