apparso su www.paradisodegliorchi.com
Autore del romanzo E poi siamo arrivati alla fine (Neri Pozza 2006), best seller
internazionale tradotto in 24 lingue, vincitore del PEN/Hemingway Award e
finalista al National Book Award, Joshua Ferris è considerato uno dei
migliori scrittori americani dell’ultima generazione.
In questo secondo libro, Non conosco il tuo nome, il titolo fa riferimento alla
singolarissima, sconosciuta malattia del protagonista.L’avvocato Tim Farnsworth infatti, qualsiasi cosa stia
facendo, in qualsiasi momento, ovunque si trovi, è costretto da una
misteriosa patologia che si palesa all’improvviso a mettersi in cammino –
senza meta e senza motivo. Qualcosa dentro di lui ordina alle sue
gambe di mettersi in moto e andare. Nessuno sa perché, medici di vario orientamento cercano
spiegazioni ognuna delle quali finisce per franare nel nulla di una ragione
insondabile.
Non si sa come chiamarla, questa malattia, nemmeno si riesce a capire se si tratti
di un’affezione fisica o psicologica. In uno stato che assomiglia alla
trance, Tim abbandona quello che sta facendo e inizia a camminare per ore,
per giorni interi, fino a schiantarsi. La moglie lo aiuta, lo cerca, lo va
a riprendere, gli sta vicino, poi a un certo punto, dopo anni di angoscia,
non ce la fa più. La figlia, alle prese con i soliti problemi adolescenziali,
all’inizio lo detesta, crede che il padre stia bluffando per farsi i
cavoli suoi. Poi pian piano prende il posto di sua madre – forse è il
personaggio più interessante del libro.
Per ovvie ragioni culturali, l’infelice protagonista
spera che la sua non sia una vera malattia psichica, spera cioè di non
essere semplicemente andato di testa. Ma analisi cliniche,
laboratori, caschi muniti di elettrodi che monitorano l’attività cerebrale
non danno risultati significativi. Problemi organici, nemmeno a
parlarne. Le cose si mettono male
anche sul lavoro, nell’importante studio legale newyorkese in cui Tim per anni
aveva goduto di grande stima. All’inizio
Tim inventa scuse più o meno clamorose per celare il suo dramma, visto che
nel suo mondo, il nostro mondo occidentale, il lavoro risulta un fattore
identitario irrinunciabile - Italia a parte. Forse
gli brucia più quello che il disastro familiare; ed è una questione più
psicologica che economica. Il fatto è che alla fin fine non sa nemmeno lui
se ciò che gli succede è un problema o una liberazione. E certo non lo sa
il lettore.
In soldoni, la storia è questa. In un libro recente, Come funzionano
i romanzi, il critico del “New
Yorker” James Wood sostiene che l’osservazione dei dettagli è uno delle
prerogative di un buon romanzo. Orbene, quello di Ferris è pieno di
dettagli, vividi, efficaci, ma difficilmente mandano avanti la storia.
Anche i dialoghi sono buoni, ma l’impressione generale è di un lavoro
molto dilatato, e la ragione che ne sta alla base, l’alterità del
protagonista rispetto al mondo dovuto all’assurda condizione cui soggiace
avrebbe trovato ben altri esiti se fosse stata nelle mani di un De Lillo,
autore cui lo scrittore dice di ispirarsi caldeggiando però una dizione
forse più comunicativa, ma anche meno geniale. Ecco,
a me sembra più che altro questo, che Ferris
svolga in una maniera più leggibile ed emotiva temi e modelli letterari giù visti - l’apologo sulla perdita di senso e
la battaglia per tenere in vita la vita.
Non stupisce leggere in giro recensioni un tantino
livorose che tirano in mezzo Philip Roth e sostanzialmente esclamano: Meno
male che si cambia musica. A me non pare che si sia guadagnato qualcosa –
il romanzo non è privo di belle pagine, anche molto dense,
però altrettanto spesso si gira a vuoto, il dramma invece di inchiodarti
gli occhi sul libro si disperde, come il protagonista. Abbastanza
sopravvalutato, direi.