Nell’ufficio di Malerba in quel periodo di campagna
elettorale c’era un via vai di giacche e cravatte coi fermagli d’oro. Molte, e
riconoscibilissime, le vecchie teste di cazzo democristiane e socialiste che
nel ‘94 avevano infilato il preservativo, si erano chiamate forzaitalia e l’avevano
allegramente messo in culo all’altra metà del paese. Ma non solo loro. Il
bestiario comprendeva tutto l’arco parlamentare. Lasciavano i loro bigliettini
con la raccomandazione di distribuirli, ai prof in primo luogo, ma anche agli
studenti maggiorenni. Molto si diede da fare Torella, sedicente studente del
serale che Malerba aveva fatto iscrivere a febbraio grazie alle insistenze di Zampa,
amico suo, che la pregò di “non dar retta alle chiacchiere”, che non era vero
che menava palate a destra e a manca - no, pardon, solo a manca;
insomma, uno squadrista ripulito a metà e bisognoso al dunque di un minimo di
alfabetizzazione, o di un diploma per piazzarsi al comune. Atticciato come un
bullo cresciuto senza grandi aiuti dalla natura, lo ammorbava, a lezione alle
dieci di sera, con domande impossibili mentre Livio era lì a sfiancarsi per
cifre da non ridire, e ogni occasione era buona per far caciara a ufo senza un
minimo di logica o di senso. Quando Torella disse che se il saluto romano era
proibito bisognava vietare anche il pugno chiuso, Livio si rese conto che aveva
da fare con un drogato.
Livio
trovò uno dei suoi bigliettini elettorali su un banco. Dalla foto, dalla
verruca pendula del becco, a Livio parve di riconoscere nel padrino di Torella
un parlamentare galliforme, un meleàgride gregario e visibilmente guercio alla
cerca di un secondo mandato. Che cosa doveva fare, assistere in silenzio?
Una mattina stava facendo lezione in quinto. Al suo
solito, anche per tenere la classe sotto controllo, spiegava in piedi,
camminando. A un certo punto un sospetto gli trapassò il cranio come un belzebù
ballerino in miniatura. Si avvicinò alla porta, continuando a parlare. L’aprì
di scatto.
Malerba, appoggiata al muro, lievemente inclinata
verso la porta, accennò un sorrisetto. - Oh professore, ho preso una storta -
piegò la schiena e tirò su una gamba. - Qui, alla caviglia.
- Male? - fece lui.
Idioti, i sorrisetti, ma intimidatorî. Tutti e due.
- Che fa, sfotte?
Finita l’ora, sfilandoglielo garbatamente via dalle
mani, gli domandò cosa ci trovasse di “così interessante” in quel libro, Carnefici,
vittime, spettatori. Se lo avvicinò al muso. La smorfia fu quella di chi
sente un cattivo odore.
- Dovrebbe smetterla con la politica, professore. I
ragazzi non vengono a scuola per sentire comizi.
- Scusi?
- Ho detto che dovrebbe smetterla di fare politica a
scuola.
- Infatti, sto solamente facendo lezione, mica
propaganda a nessuno. O vorrebbe che saltassi anche il nazismo?
Krishna! Perché sprecarsi in una tenzone dialettica
con quel furfante in gonnella e non cercare una particina in un filmetto
stronzo qualsiasi che almeno si pagava l’affitto per sei mesi?
- Senta, mi risulta che lei ultimamente faccia
chiudere i libri e si mette a parlare di cose assurde. E’ vero?
- Quali
libri? Comunque. Diciamo che mi limito a spiegar loro quello che l’informazione
si guarda bene dal raccontare - disse, pensoso. E preoccupato perché neanche
come figurante lo tenevano più in considerazione. Lo consideravano una rogna e
basta. Uno che è pagato per fare l’applauso e infila le mani in tasca: dove si
era visto mai? Figurarsi se rimediava una particina da qualche parte. Per
questo non aveva interlocutori nella sua vita lavorativa a parte Malerba e
una monaca jettatrice.
- Per esempio il fatto che votano tutti è una iattura,
è questo che si preoccupa di spiegare ai ragazzi?