Molti anni fa, ne Lo spazio
letterario, il critico e teorico
della letteratura Maurice Blanchot, sottesa l'equivalenza di arte e
immaginario, o meglio, assunto il secondo come il luogo in cui, soltanto,
l'arte è possibile, e opponendolo alla realtà irriducibile delle ‘cose’,
mostrava come un singolare percorso di allontanamento da essa, ed esperienza
creativa dell'immaginario insieme, si compisse in modo esemplare nell' opera di
Franz Kafka.
Lì si giocava a un livello tragico,
ancora moderno, l’idea di un’autonomia radicale della parola poetica rispetto
ai supposti referenti 'empirici' che crediamo di riconoscere nel mondo.
Scriveva Blanchot: "La qualità della parola abituale è che capirla fa
parte della sua natura. Ma, in questo punto dello spazio letterario, il
linguaggio è senza intesa. L'arte, come lingua dell'immaginario, è quindi
rispetto alla realtà un altrove". E ancora: “Nella parola poetica non
siamo più rinviati al mondo, né al mondo come rifugio, né al mondo come insieme
di scopi”.
Prima di designare qualcosa, o dare
voce ad alcuno, le parole hanno il loro fine in se stesse. Se è così, l'opera
insomma inizia nel momento in cui l’io dello scrittore muore al mondo. E, se
tutto questo è vero, per nessuno vale come per Franz Kafka.
La lettura dei suoi Diari, avventura emozionante per molti versi, intanto
ci soccorre in questo scopo. In essi il 'destino di perdizione' del grandissimo
praghese mostra segni che suffragano la lettura di Blanchot. Kafka sapeva che
l'esperienza dello sradicamento era una conseguenza della pratica poetica, e se
dunque l'arte lavorava a una compensazione esistenziale, rappresentava però la
via di un possibile e definitivo abbandono del mondo.
Nei suoi Diari K. non racconta se stesso al modo vezzoso dei
romantico-decadenti, ma intesse un dialogo con la pagina che si configura
essenzialmente come il disperato tentativo di mantenere un contatto con una
individualità, la sua, che rischiava continuamente di sfuggirgli, di apparirgli
estranea non meno di tutto il resto. Il suo paradosso sta quindi nell'aver
usato come strumento 'mnestico' e/o
consolatorio quello stesso esercizio che può esser causa prima
dell'oblio: la scrittura. L'esigenza di salvazione è elevata: il suo nichilismo
è sofferto, mai recitato ad arte.
Epperò l’arte, l’immaginario, contemplano necessità inconciliabili con la sua
(in)capacità di vivere la vita ordinaria; e forse, aggiungerei, contaminano, in
ottemperanza alle leggi della finzione - che sono leggi di forma, di stile
(unici idoli di Kafka, che non a caso aveva eletto Flaubert uno dei suoi
massimi modelli) - la purezza “confessionale” di quella pratica chiarificatrice e memorialistica che risponde
al nome di Diari.
Essi si estendono per un arco di
tempo che va dal 1910 al 1923. Vi è spesso dispiegato un senso di sconcerto che
segue al "vago impeto della voglia di scrivere”. Cito, un po’ a caso,
frammenti del 1911: “Non riesco a capire e nemmeno a crederci. Vivo soltanto
qua e là in una parolina nella cui vocale, per esempio, perdo un istante la mia
testa inutile." O ancora, “Creativo soltanto nel torturare me
stesso".
Algebra impossibile, la scrittura in
Kafka è guarigione e causa della malattia, una specie di ossimoro ontologico
mai così lucidamente evidenziato in altri scrittori. Essa è perdizione e atto
sacrificale, seguita spesso dal senso di colpa di chi si convince in questo
modo di non adempiere alla 'Legge' (qui, più che la normativa religiosa del
pensiero ebraico, pare connotare i suoi dettami sociali - matrimonio, vita
comunitaria, etc). L’esperienza del mondo in K. è quella di un “vuoto
perfetto", intorno al quale egli vaga con la sola arma della parola. Le
note che testimoniano le ansie verso il mestiere, peraltro, abbondano, ma
l'urgenza dello stile, della qualità estetica, si sprigionano da questa
allegoresi della scrittura come tentativo tragico di comprensione delle cose.
Nei Diari la pregnanza di alcune immagini terribili e bellissime
lascia senza fiato, se pensiamo che sono scritte da uno dei tre o quattro
scrittori decisivi del secolo: “Questo mucchio di paglia che sono da cinque
mesi"; “In fondo sono un uomo incapace, ignorante, che, se non fosse
andato a scuola, sarebbe esattamente in grado di stare accovacciato in un
canile, di saltar fuori quando gli dessero da mangiare e di ritornare dentro
dopo aver ingoiato il pasto”.
Viluppo difficile da districare, il
caso K., non c’è dubbio. Scrivere per lui significa "saltare fuori dalla
fila degli assassini", ossia trovare un linguaggio da opporre a quello
degli abitanti del Castello.
Ecco perché, e Kafka insiste su questo punto anche nelle Lettere, l'opera richiede l’espunzione della vita, il
suo allontanamento: non solo una modalità dell'assenza, ma paradossalmente,
pure, la sola possibilità di intervento (interpretativo). Se la letteratura è
finzione, per Kafka essa è altresì linguaggio della verità (o, almeno, del
possibile), esercizio ermeneutico che libera lui dal mondo rivelandolo – ma mai sino in fondo: l’incompiutezza
narrativa è inevitabile.
Pure, Kafka afferma di voler “morire
in pace". Riconosciuta l'ineluttabile inadeguatezza al vivere, egli
confessa all’amico Max Brod che le sue opere migliori le deve alla provvisoria
capacità di “morire contento”;
non solo, dice di rallegrarsi nel descrivere situazioni in cui qualcuno sta
morendo. "Mi piacerebbe spiegare il senso di felicità che ho in me di
tanto in tanto, come appunto ora," (dice riferendosi allo scrivere); o
quest'altra, fulminante: "L’arte vola attorno alla verità, ma con la
precisa intenzione di non farsi bruciare". Una benvenuta leggerezza che
segnala uno scarto - forse, il segno autentico di una 'felicità del corpo’ che
eccede la pura dimensione conoscitiva per regalare estasi improvvise.
Narrare consente anche, attraverso la
rappresentazione, di illuminare la scena giocando con essa. Da un lato, lo scrittore imita Dio manipolando
mondi (e si arroga suoi
poteri: darsi la propria
morte infatti non è soltanto lo scacco di una vita fallita, ma pure
l'esplicarsi, se si vuole en artiste, della volontà di potenza, ridotta a questa singolare espressione).
DalI’altro, quest’“uomo pieno di uno stupore infinito" ci appare come
l'adepto di una strana dottrina nella quale la scrittura diviene una forma di
preghiera attraverso la quale accogliere, allo stesso tempo difendendosene, il
tramestio del proprio caos interiore: l'arte diviene "una difesa del
nulla, una cauzione del nulla, un soffio di gaiezza prestato al nulla”.
michele lupo