10 mag 2010

Davide Longo - L'uomo verticale - Fandango




Un professore universitario, scrittore di successo, sparato via dalla vita pubblica e privata in seguito a uno scandalo sessuale analogo a quello raccontato nel gran romanzo di J.M. Coetzee, Vergogna, si trova a fronteggiare un paese sgretolato - il nostro, anche se mai nominato – in cui non funziona più nulla, si è interrotta ogni attività: non c’è più lavoro, scuola, banche, niente – l’apocalisse, dunque. Geograficamente, un Nord Ovest vicinissimo alla Francia e alla Svizzera, scenario di una violenza spietata, i cui viventi residui si difendono dall’invasione possibile degli “Esterni”, scappano terrorizzati e seminano a loro volta, avrebbe detto un nostro malvenuto connazionale, “terrore, distruzione e morte”.
Gli “Interni”, questi italici non molto diversi dagli alleati del connazionale di cui sopra, sono di per sé cosi bestiali da aver provocato essi stessi lo sfacelo in atto – che è della ragione, dell’etica, dei sentimenti, del tessuto sociale ma non del paesaggio, che resta bello e inalterato (rovescio leopardiano di un’umanità che non merita la natura che l’accoglie).
L’apocalisse - di un’Italia sperabilmente non prossima ventura, piagata da un male terribile, già postuma ossia capace di imprimere segni di vita solo in uno scenario infernale di già morti che con cadenza desultoria si affacciano sulla scena per aggiungere sangue a sangue - agisce più come antagonista che come sfondo nell’ambizioso romanzo di Davide Longo, L’uomo verticale, non immune da una certa ripetitività e acribia descrittiva che non invoglia sempre alla lettura.
Ronde, assassini misteriosi, bande di avvoltoi a caccia del poco o nulla che è rimasto dopo l’apocalisse (sulla scia del McCarthy de La Strada e del Meridiano di sangue) di contro a un personaggio mite, ex star della cultura, ex marito cui è impedito per anni pure di rivedere i figli, inadatto a fronteggiare questa violenza, la testa piena di citazioni libresche. Il protagonista sembra pensare attraverso le voci dei suoi scrittori preferiti, che in tutta evidenza non servono in un mondo ridotto a pura ostentazione di forza; cerca di tenere il male a distanza, teso non sappiamo se verso un’improbabile redenzione che solo un lettore molto paziente può verificare portando a termine la lettura.
Perché se lo scenario umano è interessante (proprio perché inquietante), non lo è altrettanto la lingua usata per narrarlo: la descrizione è spesso pedante, ingolfata, i dettagli si accumulano e il personaggio è invischiato in una trama di falsi movimenti che non mandano avanti la storia. La scrittura s’ingravida di gesti domestici, momenti puramente biologici, sudori umani e canini, tenta virtuosismi avventurosi (“La donna lo guardò come si guarda un uomo che si è orinato addosso” – ora, se c’è una lettrice che sa di cosa si sta parlando ci aiuti a capire, visto che un’esperienza de genere appare molto improbabile, uno, e di sicuro, se accadesse, quella stessa donna penserebbe che il povero disgraziato “si è pisciato addosso” non orinato, due, a meno di non essere una pervertita; e ancora “l’odore che emanava era quello delle cose appena venute al mondo, ma ancora prive di nome”: già, l’odore, a tratti è proprio quello, Torino, scuola Holding come la chiama malignamente qualcuno).
L’eccesso descrittivo insomma nuoce al romanzo. Il narratore non dice mai che un personaggio entra in macchina e parte, ma ”inserisce la marcia", eventualmente "fa inversione” etc; per troppe righe il protagonista ascolta “il proprio respiro affannoso e i battiti raddoppiati de cuore” o fa “schioccare le labbra”; e via di questo passo, troppe volte, troppo spesso.
Avesse tagliato, Longo, risolto meno lentamente certe statiche situazioni, azzardato similitudini meno improbabili, lo avremmo letto più volentieri.

Cerca nel blog