Un professore universitario, scrittore di successo, sparato via dalla
vita pubblica e privata in seguito a uno scandalo sessuale analogo a quello
raccontato nel gran romanzo di J.M. Coetzee, Vergogna, si trova a fronteggiare un paese sgretolato - il
nostro, anche se mai nominato – in cui non funziona più nulla, si è interrotta
ogni attività: non c’è più lavoro, scuola, banche, niente – l’apocalisse,
dunque. Geograficamente, un Nord Ovest vicinissimo
alla Francia e alla Svizzera, scenario di una violenza spietata, i cui
viventi residui si difendono dall’invasione possibile degli “Esterni”, scappano terrorizzati e seminano a loro volta, avrebbe
detto un nostro malvenuto connazionale, “terrore, distruzione e morte”.
Gli “Interni”, questi italici non molto
diversi dagli alleati del connazionale di cui sopra, sono di per sé cosi
bestiali da aver provocato essi stessi lo sfacelo in atto – che è della
ragione, dell’etica, dei sentimenti, del tessuto sociale ma non del paesaggio,
che resta bello e inalterato (rovescio leopardiano di un’umanità che non merita
la natura che l’accoglie).
L’apocalisse - di un’Italia sperabilmente non prossima ventura, piagata
da un male terribile, già postuma ossia capace di imprimere segni di vita solo
in uno scenario infernale di già morti che con cadenza desultoria si affacciano
sulla scena per aggiungere sangue a sangue - agisce più come antagonista che
come sfondo nell’ambizioso romanzo di Davide Longo, L’uomo verticale, non immune da una certa ripetitività e acribia
descrittiva che non invoglia sempre alla lettura.
Ronde, assassini misteriosi, bande di avvoltoi a caccia del poco o nulla
che è rimasto dopo l’apocalisse (sulla scia del McCarthy de La Strada e del Meridiano di sangue) di contro a un personaggio mite, ex star della
cultura, ex marito cui è impedito per anni pure di rivedere i figli, inadatto a
fronteggiare questa violenza, la testa piena di citazioni libresche. Il
protagonista sembra pensare attraverso le voci dei suoi scrittori preferiti,
che in tutta evidenza non servono in un mondo ridotto a pura ostentazione di
forza; cerca di tenere il male a distanza, teso non sappiamo se verso
un’improbabile redenzione che solo un lettore molto paziente può verificare
portando a termine la lettura.
Perché se lo scenario umano è interessante (proprio perché inquietante),
non lo è altrettanto la lingua usata per narrarlo: la descrizione è spesso
pedante, ingolfata, i dettagli si accumulano e il personaggio è invischiato in
una trama di falsi movimenti che non mandano avanti la storia. La scrittura
s’ingravida di gesti domestici, momenti puramente biologici, sudori umani e
canini, tenta virtuosismi avventurosi (“La donna lo guardò come si guarda un
uomo che si è orinato addosso” – ora, se c’è una lettrice che sa di cosa si sta
parlando ci aiuti a capire, visto che un’esperienza de genere appare molto
improbabile, uno, e di sicuro, se accadesse, quella stessa donna penserebbe che
il povero disgraziato “si è pisciato addosso” non orinato, due, a meno di non
essere una pervertita; e ancora “l’odore che emanava era quello delle cose
appena venute al mondo, ma ancora prive di nome”: già, l’odore, a tratti è
proprio quello, Torino, scuola Holding come la chiama malignamente qualcuno).
L’eccesso descrittivo insomma nuoce al romanzo. Il narratore non dice mai che
un personaggio entra in macchina e parte, ma ”inserisce la marcia", eventualmente "fa
inversione” etc; per troppe righe il protagonista ascolta “il proprio respiro
affannoso e i battiti raddoppiati de cuore” o fa “schioccare le labbra”; e via
di questo passo, troppe volte, troppo spesso.
Avesse tagliato, Longo, risolto meno lentamente certe statiche
situazioni, azzardato similitudini meno improbabili, lo avremmo letto più
volentieri.