Questo piccolo libro di Valter Binaghi è
una dichiarazione d’amore. E fossimo in vena di slogan giornalistici
aggiungeremmo: Valter Binaghi è l’ultimo romantico. Che oggi suonerebbe
straniante non perché questo genere di affermazioni porti con sé la tracotanza
di un linguaggio da rotocalco seppure midcult. E’ che presa sul serio, la scena descritta
nell’affermazione è quella di un camminare a ritroso, un pensiero forte e
avventuroso che marca una differenza sensibile rispetto al regime del presentismo, dell’esperienza evanescente e consumistica cui
sembra voler soggiacere l’Occidente attuale – consiglio a tal proposito di
leggere gli ultimi libri di Massimo Rizzante o di Mario Perniola.
Il libro racconta la vicenda del professor
Blangé, scrittore che riesce ad avere fortuna quando si mette in moto un
meccanismo editoriale indifferente alla qualità dell’opera ma tutto teso a
individuare nuclei emotivi “di massa” – nel caso specifico, il tema oggi
davvero invasivo della “vittima”, declinato qui nella storia di una donna che
ha perso il bambino che aspettava. Blangé inizia a partecipare a incontri e
presentazioni astruse, anche estranee al mondo letterario in sé e contigue
invece ai casi variamente disgraziati di cui si nutre il pubblico – fino a
diventare, lui, una star della televisione. Liricheggiante, spiritualmente
ambizioso, Blangé si lascia prendere dal successo grazie alla spinta di uno
psicanalista del genere oggi molto in voga: di quelli che “liberati dalle
zavorre, afferra l’attimo, fanculo alle convenzioni” insomma il solito
repertorio nato in salsa freak e oggi splendidamente complice delle nostre
esistenze ridotte a edonistico spettacolo. C’è qualcuno che paga per tutto
questo: la moglie di Blangé, figura un po’ esile, preraffaellita quasi, forse
un po’ troppo devota, che vede venir meno la lealtà del suo uomo e lo scopre
invece amante di una sua studentessa – via facebook, è ovvio.
Non credo che Binaghi (che sospetto non
del tutto estraneo alla figura del protagonista) volesse fare del moralismo,
quanto piuttosto misurare attraverso il racconto il peso variamente
distribuibile fra responsabilità e presenza da una parte e narcisismo
spettacolare dall’altro. L’esteta Blangé si compiace infatti del suo amore vero
(la moglie) ma in fondo non sente quello che sente lei, il suo dolore lui lo
trasferisce nei libri che scrive ma in fondo gli è estraneo - la sua è una
sensibilità manieristica, appunto, un esercizio di stile. Fino a quando lei si toglierà
la vita e solo successivamente Blangé ripenserà la sua storia, rispondendo
attraverso l’unica cosa che conta davvero: l’azione. Ma l’azione qui è
paradossale: novello Faust, il nostro, prima di lasciarsi morire dal dolore,
farà fuori lo psicanalista Mefisto che gli aveva cambiato (e rovinato) la vita.
Non vorrei fare un torto a Binaghi,
blues-man di lunga data, ma la favola nera che racconta sembra uno scherzo –
musicalmente parlando. Il gioco metaletterario, l’agente di polizia che ragiona
sugli stilemi del noir, la satira sul sottobosco editoriale, gli inserti lirici
del protagonista alternati alla storia, tutto questo aggiunge un tocco, se mi
si perdona l’ossimoro, di drammatica levità al libro – tralasciando prodromi e
primi sviluppi, in età romantica lo Scherzo era una composizione strumentale che alternava a una
parte vivace, anche di carattere drammatico, un episodio lirico o malinconico.
Be’, il libro di Binaghi, tecnica e stile al servizio di un pensiero
controcorrente, è costruito più o meno così. Non sai se più azzardato o
coraggioso, di sicuro più sensibile al mito che alla cronaca, nel richiamare un
motivo così inattuale come quello dell’amore unico, assoluto, spirituale,
Binaghi percorre una strada ardimentosa. Anche se facessimo fatica a seguirlo,
nell’aerea e allucinata ricostruzione narrativa, Binaghi c’infila dritti dritti
nella domanda delle domande, che non è di che cosa parliamo quando parliamo
d’amore ma piuttosto, cosa resta di una vita che non è sognata sino in fondo?