10 gen 2010

Sergej Nosov



  
Il volo dei corvi
Voland, Pag. 265 Euro 14,00
Pietroburgo e l’arte contemporanea sono il cuore del divertente anche se a tratti prolisso romanzo di Sergej Nosov. Una Pietroburgo umbratile e lutulenta, così satura di clima da determinare non solo il carattere delle persone ma persino l’umore esistenziale che li teatra - quasi che gli individui ne derivino come meri epifenomeni. In questa Pietroburgo che non ha nulla di oleografico (un paesaggio fatto di strade e vicoli ciechi, cimiteri abbandonati, misteriosi capannoni industriali e romantiche ferrovie che si disperdono nelle periferie), la vita sembra sia arte in sé. Non un ambiente cavo che alloggi pratiche aduse o marginali degli anni Novanta (performance, installazioni, mail-art) ma artefice essa stessa, la città - divinità mefitica e derisoria che sembra esserci apposta per obbligarci alla domanda radicale fra tutte: che cos’è l’arte?
Se lo chiedono di continuo i tre protagonisti del libro - tre amici falotici e malinconici come si vuole nella migliore tradizione russa – obbligati da incerte inclinazioni personali e soprattutto da un’invenzione giornalistica che bussa alla porta del loro destino con la precisa intenzione di trasformarli in artisti, senza che sappiano approfittarne sino in fondo. Le conversazioni che intrattengono con altri (spesso reali) personaggi della scena pietroburghese contemporanea  mirano a risolvere questioni ormai annose. Com’è che a uno che abbia ucciso un gatto e intenzionato nominalmente il gesto come fatto artistico, non si darebbero due anni di galera ma “un riconoscimento per un progetto innovativo”?  Quale che sia il gesto incriminato, è il pensarlo come estetico a renderlo tale: sta tutta lì la differenza fra il precipitato intestinale di chi la mattina va al bagno di corsa e chi la merda la fa d’artista.
La faccenda, si sa, involge ormai noiosamente gran parte dell’arte contemporanea ma i personaggi del libro per fortuna esibiscono un tono grottesco e a volte alterato dalla vodka che ce la rendono di nuovo spassosa – benché serissima, come avviene nella discussione sulla “forma zero” del Quadrato nero di Malevic. Lì si rischia di avvicinarsi all’essenza stessa dell’arte – sebbene enucleata nella imperscrutabile categoria del miracolo (“Il quadrato nero è idealmente identico al proprio nome: Quadrato nero!”), salvo poi rendersi conto che la teca di vetro a protezione del quadro, riflettendo l’immagine di chi lo guarda, di fatto lo modifica.
Nonostante gli sforzi, perciò, i tre non vengono mai a capo di nulla. Sicché, perduti in uno scettico stupore, non sanno cogliere l’occasione di una svolta che cambierebbe la loro vita. E’ un’intraprendente critica austriaca a decidere che una loro remota pisciata collettiva dal ponte sul fiume Neva non era stata una bravata ma un vero gesto artistico, inconsapevole  e prodigioso, propedeutico a una lunga serie di esempi, peraltro minori, di quella che lei considera arte concettuale. Ma la timidezza, o forse l’ironia (un’ironia niente affatto postmoderna) trattengono i tre dall’approfittare della chance, condannandoli definitivamente all’anonimato. Non senza un corollario tragicomico: ciò che resta depositato nella vita dei singoli individui, quelli in cui ancora agonizza il moribondo mito dell’artista, è un probabile destino di sconfitta. Lo sa bene uno dei tre protagonisti del romanzo, incompreso dalla moglie e dai colleghi di lavoro, ignari non solo del suo ineffabile talento ma soprattutto del fatto che l’arte contemporanea non esiste senza i media che la inventano. Verità che in fondo egli stesso stenta ad accettare, altrimenti dovrebbe ricavarne la conseguenza orrifica che la sola arte che esprima davvero lo spirito del tempo è proprio il marketing. E che l’artista è il venditore. Anche a Pietroburgo, alla fine del secolo scorso, fra le macerie di un altro incubo.



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