19 set 2010

Valerio Magrelli rivisti - riletti





Nel condominio di carne
Einaudi, Torino 2003



Ci vogliono prima due cose che spieghino cos’è questo libro
Una bellezza esatta ma sulfurea, più Manganelli che Calvino quella qui esposta come una lastra tesa a fare i conti (perduti in partenza) con l’enigma metamorfico, capriccioso e multiforme del corpo.
Quando non si compiace nell’ostentazione estetizzante del trovato linguistisco (tale da mettere paradossalmente a rischio il pregevole sforzo di metaforizzazione che percorre il libro) l’esercizio topografico riesce ad approssimare il continente mostruoso scelleratamente definito ‘organismo’, il concerto delle malattie che lo invadono, l’apparato sghembo di congegni bislacchi ed eccentrici che lo abitano - eccentrici poiché nulla tiene insieme l’ensemble.
Impastato di organi rissosi, il corpo agisce su di noi come un’ interferenza, come una macchina dissonante di strumenti impazziti la cui musica il proprietario subisce come un intruso cieco e imponderabile. Assistiamo in questo poema in prosa a quella che l’autore definisce una psichizzazione che rovescia la facile psicologia della somatizzazione, ragione per cui mentre enuclea gli accidenti che lo attraversano, il corpo, noi lettori vediamo il suo sguardo sgomento, freddo e perplesso affacciato sull’enigma che condiziona (che è) la nostra vita. Veramente un bel libro.

13 set 2010

ultimo numero del http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl


Autori vari

Roma durante l’occupazione nazifascista

Franco Angeli editore, Pag. 446 Euro 35,00
di A. Ronci




etc

Si ricomincia

La Gelmini non riceve i precari della scuola perché, dice, “sono stati strumentalizzati dalla politica”. Pensare che ‘sti insegnanti si credono intellettuali. Faticheranno con lo stipendio, d’accordo, spesa e affitto e bollette saranno ogni mese una sfibrante avventura, ma dovrebbero saperlo che tutto è cultura. Che tanti bisogni sono indotti. E invece ignorano che se non fosse per qualche dirigente di partito nemmeno la sentirebbero, la fame – tant’è che qualcuno ci si è messo pure in sciopero, costa niente. Ignorano che se spirassero senza l’ombra di una spinta politica, se non fossero “strumentalizzati”, non solo non se ne accorgerebbero, ma Mariastella potrebbe averla una (cristiana?) parola di conforto, di benedizione. Somari!


(oggi prima puntata del nuovo anno di vivalascuola, nel portale
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/09/13/vivalascuola-54/
grazie a Giorgio Morale, e Francesco Accattoli, Alessandro Cartoni, Roberto Plevano, Lucia Tosi)

9 set 2010

Beppe Sebaste su nazione indiana

Sulle conclusioni non saprei, ma sull'assenza del tragico nella riflessione degli scrittori italiani trovo le parole di Beppe Sebaste decisive.
Questo stralcio, per es. "Siamo in un paese dove “pensare” è sentito come sinonimo di “essere tristi”, dove la constatazione del successo di un prodotto (che sia un libro o un leader politico) soppianta il giudizio di valore, dove l’opposizione politica di sinistra ha preferito condividere linguaggio, logica e agenda con la destra invece che col proprio popolo elettivo; e dove anche scrittori e intellettuali hanno interiorizzato i meccanismi e le retoriche del potere e del datore di lavoro, invece di denunciarne la stessa colonizzazione della mente di cui siamo – tutti, nessuno escluso – vittime e conniventi. Non stupisce se Marchionne dice “basta coi conflitti capitale e lavoro”, “la lotta di classe è cosa del passato”, pur facendola lui, e guadagnando, per la prima volta nella Storia, 400 volte più dei tre operai licenziati." 
Il resto qui

29 ago 2010

Signorini, tronisti e mignotte – ci serve Gramsci?



Utilizzare il paradigma gramsciano dell’egemonia per parlare del presente, scavare nell’immondizia che ci sommerge sino al collo e piantarla di ritenerla accidentale, come fosse roba d’altri, ma assumerla come il paesaggio terrificante che è, per realizzare che o si prova a spazzarlo via o sono cazzi non per noi che siamo già andati ma per i nostri figli che se la vedranno con la prole delle Ventura o col pesciolino boccheggiante allevato in casa Bossi.
E’ quello che prova a fare in un libro recente (L’egemonia sottoculturale – L’Italia da Gramsci al gossip, per Einaudi), Massimiliano Panarari, che riprende Gramsci per ridefinire lucidamente lo stato delle cose (sebbene con qualche indulgenza di troppo qua e là, un riguardo civettuolo per certi figuri che Berlusconi ha messo a capo del killeraggio gossipparo, quasi a testimoniare per paradosso la bontà inconclusa del concetto di egemonia).
Uno degli spunti a mio avviso più interessanti del libro, anche se qui più registrato empiricamente che analizzato nei nessi causali, e sul quale la sinistra che ancora si considera critica farebbe bene a riflettere, è la paradossale convergenza di cui già parlammo mesi fa fra certa ispirazione libertaria e “anarchiste” e la svolta destrorsa dell’ultimo quarto di secolo (en passant, smettiamola con l’ipocrisia e diciamolo: il crollo del muro di Berlino per l’Occidente è stata una vera sciagura!). Perché se molti odierni funzionari dell’ideologia egemone (per tornare alla koiné gramsciana), ossia gli staffieri dello spettacolo e dell’informazione – o in non casuale sintesi, dell’infotainment – provengono da ambienti situazionisti (Antonio Ricci, per es.), il disegno, consapevole o no, che sta alla base della loro azione, e quindi della deriva del continente occidentale (e inevitabile terremoto già in atto nelle zolle asiatiche che cominciano a sentire gli effetti dello scontro) nasce per Panarari (ma è un’opinione piuttosto diffusa) nella destra americana degli ultimi decenni e poi nelle oligarchie che si sono impadronite del pianeta con la precisa intenzione di far collassare le conquiste sociali di filiazione illuministica che sono la faccia migliore del fu Secolo Breve.
Allo scopo l’egemonia (sotto)culturale ha costruito il foucaultiano “a priori” psichico necessario al progetto: dealfabetizzando masse sterminate di deficienti, addestrando milioni di umani alla “servitù volontaria” che il grande La Boetié aveva diagnosticato come precipua patologia della specie – gli altri animali per lo più quando subiscono una costrizione cercano di ribellarvisi – attraverso il panopticum dello spettacolo. L’instrumentum regni, ossia il divertimentismo, lo spettacolo infinito (che ha soppiantato l’infinito letterario di Blanchot), l’illusione edonistica di un piacere realizzato e sempre a portata di mano, abbisognano di una strategia che mirando nei fatti a una micidiale involuzione autoritaria (parliamo dei reali rapporti di potere: ripercorrere Marx, please, e prendersi il buono che c’è) si realizza attraverso dosi così massicce di ignoranza programmatica che chi ne sta fuori – chi si affanna per salvarsi – finisce per risplendere agli occhi altrui, dei più, in tutta la sua fulgida coglionaggine. Paradosso solo apparente perché l’egemonia non ha ancora finito il suo lavoro se chi ne sta fuori non finisce con il sentirsi inadeguato, persino in colpa – altrimenti, che egemonia sarebbe?
Nella fattispecie italiana, videocrazia all’avanguardia nel mondo, quello che abbiamo visto in questi anni sul versante culturale è stato, più o meno nell’ordine: incomprensione e sottovalutazione del cataclisma, illusione di una sua perifericità, stordimento timoroso e infine, quando l’inferno aveva piallato l’orizzonte, goffo tentativo di rincorrerlo (vedi il coté politico, Bersani che dice ai suoi elettori di non snobbare Rete 4!); e non ultimo, snobismo di riporto di chi si è creduto spiritoso e con allegra disposizione d’animo si vanta della consuetudine con il pattume videocratico. Qui per pietà nomi di scrittori non ne faccio, che al Paradiso siamo stufi di dargli importanza. Basti ricordare quanti danni ha fatto il fine Angelo Guglielmi direttore di rete con il suo orrore per una tivù pedagogica, come se dovesse significare tornare a Bernabei, come se da quel lato fosse possibile solo la famiglia Angela. Il mantra dello spocchioso critico, qualcuno lo ricorderà, era: “La televisione è un linguaggio”. Uno statuto ontologico, niente di meno. E perciò indiscutibile. Stiamo qui a goderci il risultato di trent’anni di questa metafisica.
Quanto poi il giornalismo (ossia un genere ufficialmente ancora separato dallo spettacolo solo perché in questo caso il pudore assicura una maggiore efficacia) abbia contribuito a questo splendido stato di salute, il libro di Panarari lo ricorda attraverso i casi umani che portano i nomi di Vespa o Signorini, le declinazioni cabarettistiche di ”Porta a Porta” o quelle trash del gossip, ma, stante che lo spettacolo si è mangiato l’informazione  (e già che oggi ci siamo con i consigli, i più giovani che non lo conoscono farebbero bene a leggersi Guy Debord: la deriva totalitaria dello spettacolo era stata letta e prevista mezzo secolo fa) sarebbe urgente vedere dentro il buco nero della crassa ignoranza ivi fabbricata. Il servizio militare permanente prestato dai Minchiolini in difesa del padrone e dei suoi accoliti (come il futuro dottore in Scienze della Comunicazione Bossi Umberto,  leader di un partito nazistoide declinato in chiave burina e dialettale, gratificato dalla mascotte brianzola Mariastella per la sua maestria semiotica, specie il mirabile dito alzato ai giornalisti – che se lo meritano – nonostante la cinesica frenata dal coccolone di qualche anno fa), la guerra ininterrotta delle troie di regime, dicevo, si avvale di falsificazioni sistematiche, omissioni, storture logiche (chi è più in grado di capirle?), interpretazioni truffaldine passate per oggettività, zoomate sacramentali sul nulla dei Casini Capezzoni Rotondi, esercitazioni sulla moda dei cagnolini da passeggio, le vacanze di Bonolis (che non ne vuol sapere di tirare le cuoia), le ultime sulla liposuzione delle grandi labbra traboccanti e via coglionando. Il paese si de-costruisce così, azzerando quel po’ di buono che fa la scuola quando lo fa: vedi i recenti coccodrilli dedicati a Cossiga, vedi la signora Palombelli che quando difende la televisione di merda nella quale sguazza con pose da intellettualina “alla mano” osa utilizzare la nozione di nazionalpopolare fingendo di dimenticare (o forse davvero non lo sa) che nel pensatore sardo ucciso dal fascismo quella era una via per costruire un’alternativa, come usava dire, al pensiero dominante. Il nazionalpopolare avrebbe dovuto essere, nelle sue intenzioni, la lingua capace di preparare una dissidenza culturale rispetto all’egemonia capitalista (personalmente non mi ha mai convinto, ma questo è un altro discorso). La struttura eroicomica della mitologia gossippara invece allestisce l’Olimpo odierno in perfetta sintonia con l’ideologia liberista, anzi agendo come suo fattore propulsivo (se v’imbattete in qualcuno che ancora ripete la cazzata della “fine delle ideologie” fate come il maestro zen con il discepolo duro di comprendonio: dategli uno sganassone sul collo).
E si avvale dicevo anche di nuova prassi scolastica, occultata anch’essa ma non troppo, costruendosi un’egemonia attraverso l’emulazione di modelli didattici di base: al posto di Gentile teniamo la moglie di Maurizio Costanzo. I suoi ragazzi teneri e dolci e determinatissimi. Chiappe al vento perché c’è sempre il Vaticano che ci guarda e si sa, i guardoni proliferano fra i guardoni.

11 ago 2010

Su una certa Gelmini, mascotte di Tremonti

qui una trouvaille di Girolamo De Michele e Carmilla sull'osceno sedicente ministro dal quale dipendono le sorti della (pubblica?) istruzione in Italia - cioè del suo alfabeto minimo. La prosa, nel suo sforzo vieppiù frustrato di risultare persuasiva,  è commovente.

3 ago 2010

L’antiretorica di Beppe Fenoglio



Scrivevo giorni fa dei brevi saggi raccolti in italiano nel volume minimum fax Nel territorio del diavolo, una pubblicazione di qualche anno fa, della straordinaria Flannery O’Connor. Ricordavo che per lei la narrativa ha da fare con i sensi e la materia giacché essa “è un’arte basata sull’incarnazione”: personaggi in situazione, dall’azione drammatica dei quali lo scrittore tenta di approssimare il nucleo d’irripetibile individuale verità. Non spiegando e interpretando dall’esterno, ma “guardando fisso le cose”.
E’ ciò che fece Beppe Fenoglio nello splendido Una questione privata, racconto di ambiente resistenziale ma svolto al netto di qualsiasi faciloneria, il caso di dire, partigiana. Fenoglio fu combattente, ufficiale di collegamento con gli Alleati, e aveva chiaro l’altissimo senso morale e il valore politico di ciò che stava facendo (non abbiamo l’equivalente nella nostra storia precedente – e successiva meglio tacere - quanto a dignità di un popolo e partecipazione dal basso), ma sapeva altrettanto bene che la letteratura non si riduce a slogan né a esercizio di articolazione delle proprie ragioni.
Una questione privata è un racconto nel quale, nonostante l’amarezza di fondo - il partigiano Milton, badogliano che ha l’incauta idea di tornare nei luoghi in cui nacque il suo amore per la giovane torinese Fulvia, viene a conoscenza della probabile relazione fra la ragazza ed il suo amico Giorgio, anch’egli partigiano, e  nel mezzo della guerra si mette alla sua ricerca per conoscere la verità sino in fondo –, attraverso un’arte ineguagliata della descrizione palpita una fisica plasticità che ha pochi paragoni nella letteratura italiana.  Milton, immerso in un fango «giallo come zolfo, tenace come mastice», si muove in un paesaggio invaso continuamente da una nebbia spessa, che “intasava i valloni e si stendeva in lenzuola oscillanti sui fianchi marci delle colline”, poi “formava spessori concreti, una vera e propria muratura di vapori” o anche “un mare di latte, rimescolato in fondo da pale gigantesco e lentissime” – e via di questo passo, attraverso decine di pagine di straordinaria densità espressiva.
In questi casi si dice che il paesaggio è un personaggio. Io direi che queste Langhe in cui “Milton ha sempre la sensazione del cozzo e della contusione” sono la storia – quella del libro, s’intende. La dimostrazione che per chi ha occhi per vedere la natura può farsi essa stessa racconto. Ché è da un dentro fisico, da uno spazio materiale e sensoriale che noi viviamo queste nostre vite in transito. Occorre saper vedere sì, avere il senso del ritmo che aveva Fenoglio, sulla pagina, e la lucidità (è più la lucidità che il sentimentalismo terreno buono per la poesia) di riconoscere che le buone e ottime e fondamentali ragioni storiche non impediscono a un uomo di trovare in un altrove, un amore definitivo e infelice il cuore della propria esistenza, di innescare un meccanismo di fuga che non è irresponsabilità ma adesione alla verità delle cose - in letteratura, oltre le poetiche, anche quella di programma che si chiamava neorealismo. Tanto che la morte Milton va a rischiarla non per uccidere un fascista o un tedesco ma per ritrovare l’amico che chiudeva il beffardo triangolo amoroso. Del resto è questo il grande libro di Fenoglio, non Il partigiano Johnny, troppo programmatico nella sua ostinata e un po’ fredda ricerca stilistica. Laddove la scrittura di questo romanzo breve è a tratti straordinaria eppure emotivamente intensa, capace di restituire tragica evidenza alle cose, di saggiarne il sapore e di ascoltarne i rumori – corpi che pesano, sensibili. Vivi nell’inevitabile sfida a un destino tutt’altro che scontato. Uno dei libri migliori del secondo Novecento italiano

26 lug 2010

Giulio Ferroni - Scritture a perdere (la letteratura degli anni zero)



Cominciamo dalla fine. Ferroni invoca un principio di responsabilità dello scrittore rispetto al destino del mondo. Detta così sembra assai pomposa. E il rischio della retorica in effetti serpeggia un po’ per tutto il libretto del critico, che svolge considerazioni spesso condivisibili ma talvolta banali, fra il fastidio per la vezzosa scrittura dei soliti Giordano, Mazzantini e il noto poseur torinese (“de cuyo nombre no quiero acordarme”, scrive) e quello per la vacuità rumorosa di festival, fiere e defilé mondano-culturali.
Al netto delle ovvie lamentele per lo scempio di una vita ridotta a reality (al critico però bisogna riconoscere la schiena diritta di chi preferisce passare per barbogio e passatista piuttosto che abbracciare il neoestetismo degli scrittori che si vantano di vedere le lavandaie dell’”Isola”: qualche tempo fa lo ha fatto con tratto pensoso-paraculo Antonio Pascale nel salotto dell’ironista per principio Serena Dandini), sbucciando via insomma il di più necessario a impaginare il centinaio di cartelle, resta l’attacco alla “degradazione del linguaggio e della vita civile” cui molti scrittori italiani partecipano con scioltezza di manovra e gusto vanesio per la passerella - magari per segnalare, essi per primi, l'irrilevanza della messinscena.
Nella stessa cultura che si vuole alta l’andazzo in corso è accettato come inevitabile; nessuno più mette in discussione il fatto che un libro esiste solo se ha successo; nessuno crede di doversi giustificare delle contraddizioni che questo implica. Farei un passo ulteriore rispetto al libro di Ferroni chiamando alla discussione gli scrittori accondiscendenti che ritengono normale acquattarsi nel così fan tutti di un’operazione editoriale come quella responsabile de La solitudine dei numeri primi. In molti mostrano di apprezzare l’editor Antonio Franchini come scrittore in proprio, ma si guardano bene dal criticarne la regia che porta il romanzetto di Paolo Giordano non allo Strega, che va da sé (è “solo” un premio…) ma a una diffusa indulgenza critica. Se Ferroni scrive che il libro si risolve in “una scrittura plastificata” in cui “la scienza non c’entra nulla, non diventa in nessun modo principio di organizzazione del racconto, ma solo generica metafora della solitudine dei due protagonisti (…) in un intreccio di formule e presupposti mediatici, una superficialissima disponibilità sentimentale a un’immagine di dolore incantato”, ottimo di questi tempi per connotare il clima di “un’educata borghesia progressista”, ecco, mentre un critico scrive questo – e io sottoscrivo – ho l’impressione che molti scrittori siano affascinati dall’operazione, che la sognino per se stessi.
Perciò, l’equivalenza di cospicua parte del mondo letterario italiano con la beceraggine della comunicazione (sulla quale da tempo va scrivendo pagine più impegnative e stimolanti Mario Perniola qui) sta proprio nel rimosso che la costituisce: il motore, mezzo e fine insieme, è lo stesso: il marketing, l’efficacia economica - divinità suasorie che non risparmiano nessuno, tanto da consentire la riesumazione di decomposti cavalli di troia utili a replicare l’aura di duri e puri stando ben dentro al mercato dei libri che si ve(n)dono. Fino a qualche settimana fa non risulta che autori Mondadori o Einaudi si stessero facendo problemi sulle scelte che lo definiscono; finalmente - ora che va in piazza anche Sabrina Ferilli - è arrivata una lettera di protesta rispetto all’infame ddl sulle intercettazioni, acme di un’affezione non so se più acuta o cronica del corpo sociale di questo tristissimo paese. Di solito, scrittori che si straccino le vesti per la fine che sta facendo non ne vedi. I più fra gli scrittori italiani brillano per le loro “scritture a perdere” ma anche per l’assenza di partecipazione alle cose serie – vedi il disinteresse per la scuola. Credono di cambiare il mondo con un noir, o con una battuta molto ironica, mentre si aggirano sornioni - senza l’aria sperduta di Ferroni,  che non vede l’ora di scappare - fra Saloni e Fiere del Libro che al risveglio culturale di cui abbiamo bisogno come e più del pane partecipano zero, fatturato a parte - Mondadori e Einaudi, s’intende.

22 lug 2010

FLANNERY O’CONNOR Nel territorio del diavolo -


Questi brevi saggi della narratrice americana (1925-1964) per la  cura di minimum fax sono centrati sulla questione dello scrivere, tenuta con forza e concentrazione estrema dentro il luogo che in ultima analisi le compete: quello della verità. La narrativa secondo la O’ Connor ha da fare con i sensi e la materia giacché essa “è un’ arte basata sull’incarnazione”: personaggi in situazione, dall’azione drammatica dei quali lo scrittore tenta di approssimare il nucleo d’irripetibile individuale verità. Non spiegando e interpretando dall’ esterno, ma “guardando fisso le cose”. E’ interessante come la sfida della scrittrice cattolica assuma da una tale nozione della narrativa un’idea forte del mondo che fa a pugni con un’ America che negli anni scorsi, ahinoi, ha ricordato molto quella di cui lei fra l’altro scriveva: “Il revival religioso nazionale degli anni Cinquanta ha ottuso il senso critico, ogni forma di dissenso è slealtà, se non aperta ribellione”. Situazione culturale che evidentemente produceva un manicheismo reazionario ostile a un’ idea di letteratura come esercizio sulla verità, e che nei primi anni del nuovo millennio ha mpressionato per motivi ancor più drammatici.

10 lug 2010

Frammentismo novecentesco: Joyce fra avanguardia e racconto.




Scrivevo tempo fa che da più parti si smania per rimuovere il ‘900 dall’odierno discorso critico. Il fatto è che nessuno ci ha spiegato perché. Quando si voltarono le spalle al grande romanzo realista dell’800 si disse, per semplificare, che il paradigma onnisciente da esso implicato non era più credibile. Era lo stesso ‘8oo a nutrire in sé i germi di quell’implosione; la lezione nietzscheana (morte di Dio, fine della metafisica - a prescindere qui dalla lettura di Heidegger) preparava la frammentazione centrifuga del dettato romanzesco. Prima che letteraria la questione era epistemologica.
Che cosa sia successo negli ultimi trent’anni, a parte l’ostentato e reiterato proclama del bisogno di tornare al racconto, non è ben dato di sapere. Non che non dovesse succedere, ma spesso invece che a una rielaborazione critica assistiamo a giudizi sommari, ove più che altro si coglie la fregola di abbandonare a se stessi testi di non immediata leggibilità. Come questo Giacomo Joyce, tra tutti i titoli del grande scrittore irlandese certamente uno dei meno noti, nonché l'ultimo pubblicato – postumo, solo una cinquantina di anni fa.
Lavoro autobiografico, vi si racconta – se il  verbo non è improprio - l’infatuazione di Joyce per un’allieva del corso di inglese che lo scrittore teneva a Trieste negli anni della sua esperienza italiana. Anni che coincisero con quella che allora chiamavano "la mezza età". Il protagonista è dunque un uomo sui trentacinque anni (non i trentacinque di oggi, iniens aetas spappolata da una coatta estetizzazione di massa) che si innamora di una donna molto più giovane di lui, e che tenterà di sedurre  con le armi subdole, raffinate quanto inutili della sua cultura. E, come accade ai patetici antieroi dei romanzi dell’amico Svevo, anche qui il dotto seduttore, tumido del suo sapere e imbranato malgrado gli sforzi, fallisce. Di questo fallimento la prima pagina è presaga: la ieratica distinzione di lei, la vana conversazione di Giacomo che cita mistici e filosofi, la goffaggine del contatto e il rapido esaurirsi di quell'onda fabulatoria che non approda a nulla:  è già tutto chiaro dall’inizio.
I lettori attenti di Joyce si accorgeranno che alcuni tratti di questo libello compaiono mutati o ampliati nel Portrait  e nell'Ulysses: Joyce li utilizzò probabilmente pensando che il breve lavo­ro non sarebbe diventato un libro, non ravvisandovi quel modello di drammatizzazione che egli considerava come la forma artistica per eccellenza. Ed è proprio per questo che risulta un tentativo esemplare della scrittura novecentesca. La stessa difficoltà di definirla è sintomatica. Lì per lì sembra felice la scelta del Binni quando parla di prosa poetica; forse lo si potrebbe dire meglio poemetto in prosa. Vi è chi ha parlato, come riferimento compositivo e ideale, della Vita Nuova di Dante, modello non del tutto improbabile che Joyce conosceva e amava.
Per certo, come testimonia la riproduzione fotografica del taccui­no, il racconto appare tracciato alla maniera di un testo poeti­co, con ampi spazi bianchi, che rimandano a suggestioni di certa poesia mallarmeana e visiva. Motivi crip­tici inseguono e prolungano, in quegli spazi, i  meri significati dei grumi verbali. Pur mancando il pletorico addensamento di grovigli lin­guistici dell’Ulysses e di Finnegans-Wake, ci  troviamo anche qui di fronte ad una prosa che parla come nella poesia soprattutto attraverso il "come”. E il discorso, frammentato, stringatissimo e poi aperto in quelle rivelazioni bianche e allusive, rivela ancora una contiguità all’arte dei versi, dove le visioni improvvise  (definite "epifanie" dallo scrittore), che configurano una tipologia o dei caratteri, e svelano la realtà in un’intuizione improvvisata, saranno per loro laconica natura più prossime all"evocazione violenta di un clima, di un ethos, che a essere trasferite ad un esteso svolgimento di accadimenti concreti (che qui mancano perché la ragazza proprio non ne vuol sapere, ecco).
Se per le opere narrative maggiori si potrà parlare, come Eco ha fatto, di epifanie-struttura, qui invece abbiamo di fronte un'epifania della parola isolata, della microproposizione descrittiva che sradica le cose dalla loro condizione comunemente conosciuta, svelando della donna ambita l'immagine preziosa e inattingibile di cui sopra, attraverso rapide, coloristiche folgorazioni che fanno pensare alle rilucenti decorazioni del "romance" o all'arabesco muliebre di Klimt. Lo scenario è attraversato da nebbie oniriche che definiscono il solo spazio in cui diventa possibile realizzare il desiderio di possederla. Lontano da quei sogni ingannevoli, Giacomo non saprà, contraddittoriamente, non scorgere in lei pure dei "falsi sorrisi", una leziosa gentilezza, un’ambigua virtù: già qui, dopotutto, l'acre senso del grottesco che sarà di Ulisse. Il risvolto da umor nero di un esteta che non può accontentarsi dell’estetismo.

Edizione considerata
James Joyce
Giacomo Joyce
Guanda


27 giu 2010

Il neo-ministro di non si sa che, certo Brancher, già condannato in appello ai tempi di Tangentopoli e poi prescritto grazie alle avventurose leggi del suo padrone (o viceversa?), ha detto "L'Italia perde i Mondiali e se la prende con me..."
Poi dice cha la satira è in crisi.

23 giu 2010

Agorà, il brutto dell’avere ragione.






Ultras come talebani d’epoca – si chiamavano Parabolani, sempre in bilico  come succede non di rado nel Cattolicesimo sul crinale che separa la stupidità dalla protervia, con la Croce bene in vista, in questo polpettone fumettistico, Agorà, diretto dall’incerto Alejandro Amenábar.
La forma-macchietta è in parte necessitata dal soggetto - non Ipazia evidentemente, astronoma, matematica, filosofa “insegnante di strada” interprete del Neo-platonismo, che qui fanno temo un po’ troppo bella (l’attrice è Rachel Weisz) e crucciata fra cerchi ed ellissi come una padrona di casa che non sa come sistemare tavolo e posate per gli ospiti – non lei, ovvio, una delle migliaia di vittime dei tiranni che hanno parlato e legiferato in nome di Dio (qualcuno mi sa dire se conosce una parola più pesante di questa, “Dio”?); la tragica macchietta è quella dei servi di quei tiranni, solerti nel far schizzare sangue altrui sui muri di palazzi che dovevano essere splendidi, di pagani innanzitutto, non disdegnando lo squartamento di budella di opposti servitori del Signore, un altro, va da sé, non meno gravoso, non meno incazzato – questi Dei in versione monoteista avendo in comune un certo animo avvelenato, bisogna dire.
Il film, accampato nel solito rassicurante formato kolossal, illustrativo, kitsch (fatto caso che la parola è in disuso? forse perché è stato sdoganato definitivamente e sottratto al ludibrio dai Baricco, Giordano e Adelphi in caduta libera scambiati per letteratura?) vorrebbe poi farsi prendere sul serio quando ci mostra la fascinosa Ipazia nel corpore vili delle sue speculazioni. E proprio non ce la fa.
Di interessante, volendo, emergerebbe certa psicologia cattolica, anch’essa oggi trascurata dal “dibattito pubblico”: la lezione nietzscheana dell’omino risentito, impotente o mal attrezzato (non soccorre alla bisogna la verifica empirica dell’impazzimento pedofilo di canoniche sparse a ogni latitudine?), intimamente orientato verso una naturale schiavitù più che al libero esercizio del pensiero. Lo schiavo personale della scienziata infatti vede nel Cristianesimo la possibilità di sottrarsi alla sua condizione, ma intimamente resta invischiato in una colluvie di idee e sentimenti torbidi, violentissimi. Che sia inventato, lo schiavo, non è il fallo peggiore dell'a tratti risibile ricostruzione storica.

Epperò di questa coraggiosa figlia di Teone d’Alessandria, con il quale nella leggendaria biblioteca sottrassero l’opera di Euclide all’obio, l’unica matematica di cui si ebbe contezza per un millennio, della quale scrisse Leopardi, che Raffaello volle dipingere nella maschilissima “Scuola di Atene” dei Palazzi Vaticani  sotto le sembianze dell’efebico Francesco Maria della Rovere, nipote di papa Giulio II, per sottrarsi all’ira dei cardinali, dislocandone la figura in una zona più defilata rispetto al progetto originario, di questo personaggio formidabile insomma Amenabar ci offre una versione da fiction televisiva, tanto più pecoreccia quanto più patinata – una plastica digitale tardo hollywoodiana, impregnata di ridicolo sangue di teste mozzate rese vieppiù gratuite dal fatto che i Parabolani quelli veri, aizzati dal Vescovo Cirillo (uno che hanno fatto santo, perché si sa, quanto al peggio, la Chiesa non si fa mai mancare niente) la donna la squartarono viva con conchiglie affilate (o gusci di ostriche, stiamo lì) laddove nel film viene solo soffocata dallo schiavo innamorato e lapidata quando è gia in volo per l’aldilà – non il paradiso evidentemente (fra le tante cose che Madre Chiesa non ci ha ancora spiegato è che cosa succede alle anime sfigate per le quali essa ha chiesto scusa secoli dopo avendo commesso un errore di valutazione in vita: si è fatto in tempo a sottrarle all’Inferno o chi si è visto si è visto?)
Pare che il ritardo nella distribuzione del film sia dovuto ai malumori del Vaticano (stanno sempre neri da quelle parti). Ha ricordato di recente Umberto Eco come durante l’Udienza Generale del 2007 Papa Benedetto XVI abbia fatto “un ritratto a tutto tondo di Cirillo, omettendo proprio l'episodio dell'assassinio di Ipazia raccontato nel film: evidentemente nella Chiesa c'è dell'imbarazzo”.
Eccessivi, come sempre, dalle parti di via della Conciliazione. Zelanti nei momenti sbagliati.
Ma vale la reciproca. Film così ottengono l’effetto contrario a quello  perseguito dal regista che voleva contrapporre la liberà dell’esercizio critico al fondamentalismo dei soliti noti. Un messaggio così ovvio viene mortificato infatti da una scrittura banale, di cui si può facilmente notare il manicheismo, falsificata in ogni suo fotogramma – persino  da una colonna sonora improbabile, data in pasto agli spettatori corrivi che hanno bisogno di Dan Brown per fare i conti con secoli di brutte storie e menzogne.
Per questo scopo basterebbe far girare la notizia che Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia Università Lateranense, a proposito dell’ostia consacrata ricevuta da Silvio Berlusconi nel corso dei funerali di Raimondo Vianello ha dichiarato: «I divorziati che si sono risposati una seconda volta civilmente non possono accostarsi alla comunione.  Ma con la separazione dalla seconda moglie Berlusconi è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante”.
Fantastico no?
Be’, basterebbe sapere che c’è chi ha definito “sottigliezza dottrinale” questa uscita. Basterebbe invocare un po’ di zelo nei momenti giusti. Basterebbe rimandarli a scuola. Di logica, di pudore.

M


19 giu 2010

José Saramago


Ricordo Saramago linkando questa intervista. La lucidità da una parte, la menzogna delle cosiddette democrazie e delle religioni dall'altra.
http://www.radicali.it/view.php?id=70229

18 giu 2010

Prova Invalsi e... oddio, ancora lui, il Piccolo della sinistra


















In questo documento ("Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici" ) del dicembre scorso, possiamo leggere il senso del progetto:

“A regime, le prove dovranno essere somministrate all’intera popolazione scolastica delle classi di riferimento”; verrà costituito un “ranking provinciale, regionale e nazionale rispetto a tutte le scuole o alle scuole dello stesso tipo, costruito sulla base della media o della mediana dei risultati dei rispettivi studenti”. I risultati alle prove verranno correlati sulla base della “predisposizione di un’Anagrafe Scolastica Nazionale che segua nel tempo tutti gli studenti consentendo di abbinare la loro performance alle caratteristiche delle scuole frequentate e degli insegnanti incontrati, nonché a dati di fonte amministrativa sulle caratteristiche demografiche ed economiche delle loro famiglie”. Ciò permetterà di “disegnare un sistema di incentivazione che premi i singoli operatori della scuola in funzione del conseguimento di obiettivi relativi agli studenti con i quali essi siano entrati direttamente in contatto” e parallelamente di agire su “a) Reclutamento e rimozione dei presidi sulla base della performance ottenuta. b) Reclutamento e rimozione degli insegnanti” fino in casi estremi “all’accorpamento o alla chiusura della scuola”.

Chiaro? 

A parte che con la manovra finanziaria tutto ciò che concerne migliori retribuzioni agli insegnanti va a puttane (come non potrebbe essere diversamente con questo governo), si è impressionati dalla lucida dabbenaggine del progetto stesso - peraltro organizzato in un modo cervellotico e farraginoso -, che pretende (al costo di diversi milioni di euro ogni volta) di individuare standard didattici simili fra una scuola della Milano bene e un barcone di figli di disperati fuggiti da guerre e miseria. Prove uguali per tutti, insomma, e più soldi a quelli che possono vantare "risultati migliori" (per es, un congiuntivo al posto suo e non dove lo mette la signora Gelmini, che però è fuori concorso, avendone già vinto uno a Reggio Calabria come avvocato dopo averlo perso dalle parti sue, che pure hanno goduto negli anni di una sicura crescita del Pil grazie ai trasferimenti da una scuola all'altra (private) della stessa signora Gelmini una volta constatato (sempre la sfortunata signora) che il liceo statale era al di sopra della sua portata).




La manovra, come detto, azzera tutto. In un certo senso, il suo autore, lo stesso guarda caso che comanda l'istruzione, il Tremonti che cercano di far passare per genio e che è solo un nemico dell'umanità e dell'intelligenza aveva previsto e preparato tutto: gli Invalsi diranno quanto somari siano gli insegnanti e l'opinione pubblica troverà che non poterli licenziare è un vero scandalo. 


Infine lui, il grande Piccolo della sinistra piaciona e simpatica e indulgente. Avevo o no ragione di dire che sta sempre in mezzo? Per la prova d'Italiano hanno preso proprio due paginette delle sue - in effetti, elementari. Ne sarà orgoglioso, immagino. Anche d'essere oggetto di domande come questa, forse

Il tema centrale del testo è:
A l’evoluzione nel tempo di un rapporto di amicizia 
B il progressivo allentarsi di un rapporto di amicizia 
C la riflessione su un rapporto d’amicizia ormai finito 
D il rimpianto per un rapporto d’amicizia ormai finito

qui una discussione
http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2010/06/18/lestensione-del-dominio-della-lotta/
in cui peraltro si ricorda la presenza ingombrante nel progetto della compagnia delle opere di comunione e liberazione

16 giu 2010

Il grande Piccolo della sinistra



Francesco Piccolo nel suo piccolo è un interessante esempio di tic culturale – o forse psicologico ma quelli sono fatti suoi. Un certo modo di essere di sinistra che non arriva ancora alle putride sciocchezze di Rondolino (il quale credo non abbia un solo lettore in tutta la penisola essendoci già Vittorio Feltri per quel genere di cose), ma ne condivide il passo, quello di chi ci tiene molto a passare per più intelligente degli altri. Qualcuno deve dargli retta se gli fanno scrivere il cinema italiano - non il Giorgio Diritti de L’uomo che verrà, evidentemente, ma non si può avere tutto dalla vita.
Conchita De Gregorio lo trova abbastanza sapido da lasciargli una rubrichetta su “l’Unità” in cui Piccolo fa mostra della sua bravura che riterrà a effetto e che in effetti ci lascia secchi come davanti a una massima di Chamfort. Questo esemplare meridiano così dotato di esprit de finesse, molto preso dal bisogno di mostrarsi chic ma in scarpe da tennis, che fa le pulci ai vezzi e ai conformismi della sinistra italiana (converrà, non è un’impresa titanica) è stato capace però di scrivere una cosa così didascalica e priva di una sola invenzione come Il Caimano di Moretti, il film più brutto della storia recente del cinema italiano.
Se un paio di volte a settimana uno butta l’occhio sul sito de “l’Unità” trova un bel florilegio dei distinguo di questo maestro della sinistra intelligente. Per esempio, nel pezzullo del 31 maggio Piccolo, che è proprio il più intelligente di tutti, dopo aver scritto che anche lui, ci mancherebbe, è contro il ddl sulle intercettazioni (anche se due mesi prima aveva detto che non bisogna processare i faccendieri in tv – si vede che nel frattempo qualcuno gli ha fatto notare che in tribunale processano solo rumeni e senegalesi)* e dopo aver ammesso che anche lui ne ha “morbosamente” letto alcune, di intercettazioni, in cui si trascrivevano conversazioni intime di nessun rilievo penale, aggiunge che vorrebbe “vivere in un paese in cui (…) i cittadini (come me) non avessero alcuna voglia di leggere fatti privati di nessun interesse pubblico”.
Piccolo insomma è scontento di sé ma ha bisogno di tirarsi nel fango le restanti anime belle della sinistra che si vanno a leggere i resoconti porcelli in camera da letto e poi fanno del moralismo a buon mercato. Il che è un curioso affare: poiché egli stesso dichiara di leggersi le intercettazioni, non v’è ragione di non credergli. E, seguendo il suo ragionamento, avremmo il diritto di fargli una tiratina di orecchi. Non abbiamo prove invece di altri che lo facciano - quindi non si capisce in base a quali fonti il Piccolo possa permettersi di fare del moralismo lui. A meno che il meccanismo, il tic (Scrivere è un tic, è il titolo di un suo libro) sia un altro: Piccolo, affranto dalla constatazione di vivere in un paese di guardoni, vorrebbe però esser visto come una simpatica carogna (altrimenti che artista sarebbe? - “simpatico megalomane” si definisce invece quell’altro genio di Allevi, il pianista riccioluto che non sai se c’è o ci fa); Piccolo è uno che fa ciò che non si dovrebbe fare, e mentre biasima pubblicamente gli altri, si pente di averlo fatto (come il rocker de’ noantri Morgan – il cui genio mi sfugge).
Insomma, Piccolo, scrittore anche in proprio di belle chiavate, ci tiene a non passare per bacchettone, anzi, a esibire una certa malandrina verve da “politicamente scorretto” (che brividi), ma poi ammonisce i lettori a fare di questo paese un “paese diverso”.
Non dovrebbero averle certe voglie, le persone di sinistra, questo è il succo del suo pensiero. E come si fa, Piccolo, come si fa? Ce lo dici? In fondo, ci hai già illuminato altre volte, a noi gente di sinistra, ci hai ammonito, ci hai detto papale papale che siamo uguali a Berlusconi, noi che stimiamo Daniele Luttazzi, che siamo maschilisti anche noi, e anche Luttazzi, va da sé. Ci hai anche detto che invece gli elettori di destra, che tu hai voluto vedere da vicino alla manifestazione di due mesi fa, a Roma, sono migliori del loro capo. Hai scritto che quella gente “Sembrava anche piuttosto imbarazzata da tutta quella violenza che Berlusconi lanciava senza freni e senza qualità. Gente sincera quando cerca qualcosa di buono dalle promesse che le vengono fatte. E soprattutto gente molto migliore, più pacata, meno astiosa e più allegra del presidente del Consiglio e dei suoi amici.”
Cazzo, io Piccolo ci credo che tu scrivi il cinema italiano oggi, tu Piccolo ne hai di fantasia, tu non hai visto le braccia tese dei fascisti, non hai visto gli striscioni affettuosi su Borsellino, non hai visto quelli che alzavano le mani sull’inviato di “Anno zero”. Ma hai visto tutto il resto e cioè che qui in Italia abbiamo Berlusconi e Luttazzi che sono molto simili fra loro, un elettorato di sinistra che fa abbastanza schifo, maschilista e porcellone e forcaiolo com’è, e “la gente” di Berlusconi che è meglio di tutti.
Tu Piccolo te ti debbono fare un monumento, certo quando avrai finito di scrivere il grande cinema italiano di cui parla tutto il mondo.

*Tutto sul sito de l’Unità.


14 giu 2010

La rapina

In tanti, i più, non lo sanno. Non lo hanno capito nemmeno molti fra i direttamente interessati (per non peggiorare l'umore, al momento preferisco non domandarmi il perché, perché sono così supini rispetto alla loro sorte, perché sono incapaci di pensare a qualcosa che sia un po' più in là di dopodomani).
Per chi volesse farsene un'idea, del massacro in atto dalle parti della scuola pubblica, e della pesantissima rapina ai danni degli insegnanti (decine di migliaia di euro a carico di ognuno, altro che blocco degli aumenti) qui si può leggere il drammatico resoconto della situazione curato dall'amico, infaticabile, Giorgio Morale, insegnante e scrittore.

10 giu 2010

Pensare che la cosiddetta sinistra sperava in lui. Pensate come sta messa.


A proposito del Tacchino, molto vezzeggiato perché speculare al vuoto dei suoi fans, Livio si divertiva a vivisezionarne le sortite televisive. Lui il televisore non l’aveva, la considerava un’opzione politica e non costava nessuna fatica, ma appena capitava a casa di qualcuno se poteva lo accendeva e si andava a cercare subito il peggio. Tre volte l’aveva visto, il Tacchino, e tre volte  l’aveva beccato che si allisciava la cravatta. Sempre lo stesso gesto; faceva scorrere la mano destra dal nodo fino alla punta, cui dava immancabilmente un colpettino erettile sventolandola dritta sulla telecamera. Non le perdeva mai di vista, la cravatta e la telecamera. Livio ricordò in classe di quando il Tacchino aveva sostenuto che il coccia pelata era stato il più grande statista del secolo: il giorno dopo, alla richiesta di spiegazioni della solita vocina querula dell’ informazione Rai il Tacchino, abbronzato ma sdegnato per il pletorico clamore, la cravatta all’erta, aveva risposto che “non si trattava di un giudizio storico o politico, ma semplicemente personale”, e la vocina querula non si preoccupò - o non fu in grado di preoccuparsi - di fargli notare che statista e secolo erano appunto vocaboli che rimandavano rispettivamente alla politica e alla storia; che poi il giudizio fosse personale era ovvio in quanto era stato precisamente il suo. 

Basta!

Andate a vedervi questa roba. La cosa si sta ripetendo sempre più spesso. Mettetela assieme al resto, legge bavaglio, massacro della scuola, umiliazione degli insegnanti (per avere un'idea, con il blocco degli scatti di carriera, più grave del mancato rinnovo contrattuale per tre anni, un prof con dieci anni di servizio perderà circa 30.000 euro per il resto dei suoi giorni): non è fascismo, è peggio, perché il manganello lo capivano tutti, qua sono troppi ancora a dormire. Anche a scuola.

8 giu 2010


Domenica la Gabanelli ci ha mostrato questo documentario su e dalla Birmania. Non mancano immagini da storia dell'orrore. Ricordo che Alessandro Piperno, fighetto doc delle patrie lettere, di quel genere di evanescenti con la pochette giusta  e il nulla da dire che piacciono a D'Orrico, scrisse sul Corriere (il quotidiano che nasconde sotto le buone maniere - e nemmeno sempre - la stessa ferocia che Libero e il Giornale esibiscono senza più remore) che era colpito dal modo, mite ed elegante, in cui i monaci protestavano contro il loro governo. Mica come nelle manifestazioni italiane, con tutto quel casino e le grida e i morti ammazzati - vuoi mettere che sublime spettacolo di compostezza quando i morti ammazzati  sono monaci. Naturalmente Piperno questo raffinato pensierino lo aveva partorito nella sua comoda casa borghese fra una tirata di pipa e l'altra. Naturalmente Piperno non è il solo a farti venire il latte alle ginocchia - ieri in piazza a Roma contro il governo c'erano persino Sabrina Ferilli e C. De Sica, ma di scrittori neppure l'ombra. Gli scrittori italiani sono di solito impegnati a farsi le pippe ai festival. Ci tengono al marchio Einaudi e sanno che nessuno vende come Mondadori. Gli scrittori italiani vorrebbero essere Carlo Rossella. Lo sono.



6 giu 2010

Baudelaire e un romanzo che credevo fosse mio



Oggi mi fanno notare che L'onda sulla pellicola non l'ho scritto io, benché me ne sia compiaciuto o doluto per anni, a seconda dell'umore. La fnac, multinazionale sì ma sciovinista come da buona tradizione transalpina, ne assegna la paternità a un signore del quale non dovrebbe essere rimasta nemmeno la polvere e che al difetto di essere non solo parecchio più bravo di me ma di molte spanne più su rispetto ai molti che hanno contribuito alla storia della letteratura, si vede aggiunto quello di aver scritto uno dei romanzi meno venduti della suddetta storia - a mille copie non c'è arrivato. Per uno come il sottoscritto, che da Baudelaire ha tutto da imparare, sono soddisfazioni.


2 giu 2010

 
Una speranza non la si nega a nessuno; ne ho una tutta per me. Mi auguro che non venga in mente a nessuno, fra venti o quarant'anni, di proporci versioni aggiornate della "Grande Storia", quella che 
abbiamo visto per anni su rai 3. Specie quel genere di puntate sui gerarchi fascisti o gli uomini del
fuhrer




                                

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