31 lug 2012

Grandi ustionati (da se stessi)

dal paradiso


copertina del libro
Ero curioso – cose che capitano col caldo, non saprei dire - di rileggere Paolo Nori dopo averlo presto abbandonato, agli inizi, per colpa sua mica mia, avendo l’uomo preso gusto alle sue letture di storie troppo uguali per non sottendere che l’unico suo vero interesse fosse la voce che le raccontava. Che ci ha fatto una carriera, Nori, con la sua voce, ma anche irritato non pochi lettori che di fronte ai suoi libretti, diciamo al secondo al terzo, capita l’antifona, li abbandonavano (perché sulla pagina resta poco o nulla) o rispedivano sulla fin troppo celebrata via Emilia di scrittori e cantanti che hanno ammorbato la scena italiana degli ultimi trent’anni. Come l’orribile voce+chitarra di Ligabue, anche Paolo Nori, a un più alto livello di consapevolezza artistica ci mancherebbe (con Ligabue in verità ci vuole poco), ripete se stesso a vita. Il suo giro di frase, intonazione e parlato “antiletterari” che già nella rivista “Il semplice” di Gianni Celati (agli esordi delle sue storie comiche un geniaccio, poi lentamente impallidito) mostravano la corda di una maniera riconoscibilissima e paradossalmente iperletteraria nonostante e anzi in ambigua virtù della propria avversione alla retorica – come fosse possibile non averne una. “Il semplice” divenne la palestra di Nori, che in questo Grandi Ustionati uscito nel 2001 per Einaudi e ora riproposto da Marcos y Marcos tornava sul suo alter-ego Learco Ferrari, lo faceva finire in ospedale a causa di un incidente e gli metteva in bocca la sintassi sgangherata ad arte (“Ho scosso la testa, volevo significare che io certe cose non mi metto neanche a spiegarle io, certe cose”) ma con un sapore di già visto già letto da decenni che ovviamente aveva fatto godere la critica di zombi con pannoloni e camomilla di quelli visti all’ultimo Strega. Dunque ho riprovato, con Nori, a vedere se il mio era un fastidio motivato. Se non fossi stato ingeneroso a pensare che poi la retorica degli anti-retorici è una gran furbata e poco più. Ho pescato Learco domandarsi com’è che ama tanto la sua gatta e com’è che vanno tanto d’accordo, loro due. E poi illuminarsi tutt’assieme. Con frasi come questa: “Che lei, la gatta, personalmente, e io, Learco, come discendenza, noi siamo entrambi dei clandestini dei sans papiers noi l’abbiam conosciuta, la sofferenza del mondo, l’ho capito stasera, il motivo che noi siamo tanto legati”.Che, come direbbe proprio lui, uno ride e però ci trova pure il messaggino perbene, di quelli – uomini (e gatti, ma loro non lo sanno) - che si vogliono straniati, diversi, pauperisticamente fighi. Mah, sarà che da queste parti abbiamo un brutto carattere. Che tendiamo a pensar male. Che certe moine infastidiscono – vedete, son facili facili. Che se volete vado avanti, dieci cento mille pagine a piacere… E invece no, va bene che uno scrittore scrive sempre lo stesso libro, ma non è detto che gli altri debbano leggerselo.

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