Scrivevo tempo fa che da più parti si
smania per rimuovere il ‘900 dall’odierno discorso critico. Il fatto è che
nessuno ci ha spiegato perché. Quando si voltarono le spalle al grande romanzo
realista dell’800 si disse, per semplificare, che il paradigma onnisciente da
esso implicato non era più credibile. Era lo stesso ‘8oo a nutrire in sé i
germi di quell’implosione; la lezione nietzscheana (morte di Dio, fine della
metafisica - a prescindere qui dalla lettura di Heidegger) preparava la
frammentazione centrifuga del dettato romanzesco. Prima che letteraria la
questione era epistemologica.
Che cosa sia successo negli ultimi
trent’anni, a parte l’ostentato e reiterato proclama del bisogno di tornare al
racconto, non è ben dato di sapere. Non che non dovesse succedere, ma spesso
invece che a una rielaborazione critica assistiamo a giudizi sommari, ove più
che altro si coglie la fregola di abbandonare a se stessi testi di non
immediata leggibilità. Come questo Giacomo Joyce,
tra tutti i titoli del grande scrittore irlandese certamente uno dei meno noti,
nonché l'ultimo pubblicato – postumo, solo una cinquantina di anni fa.
Lavoro autobiografico,
vi si racconta – se il verbo non è improprio - l’infatuazione di
Joyce per un’allieva del corso di inglese che lo scrittore teneva
a Trieste negli anni della sua esperienza italiana. Anni che coincisero con
quella che allora chiamavano "la mezza età". Il protagonista è dunque
un uomo sui trentacinque anni (non i trentacinque di oggi, iniens aetas spappolata
da una coatta estetizzazione di massa) che si innamora di una donna molto più
giovane di lui, e che tenterà di sedurre con le armi subdole, raffinate quanto
inutili della sua cultura. E, come accade ai patetici antieroi dei romanzi dell’amico
Svevo, anche qui il dotto seduttore, tumido
del suo sapere e imbranato malgrado gli sforzi, fallisce. Di questo fallimento la prima pagina è presaga:
la ieratica distinzione di lei, la vana conversazione di Giacomo che cita
mistici e filosofi, la goffaggine del contatto e il rapido esaurirsi di
quell'onda fabulatoria che non approda a nulla: è già tutto chiaro dall’inizio.
I lettori attenti di Joyce si
accorgeranno che alcuni tratti di questo libello compaiono mutati o ampliati
nel Portrait e
nell'Ulysses: Joyce li utilizzò probabilmente pensando
che il breve lavoro
non sarebbe diventato un libro, non ravvisandovi quel modello di
drammatizzazione che egli considerava come la forma artistica per eccellenza. Ed
è proprio per questo che risulta un tentativo esemplare della scrittura
novecentesca. La stessa difficoltà di definirla è sintomatica. Lì
per lì sembra felice la scelta del Binni quando parla
di prosa poetica; forse lo si potrebbe dire
meglio poemetto in prosa. Vi è chi ha parlato, come riferimento compositivo e
ideale, della Vita Nuova di Dante,
modello non del tutto improbabile che Joyce conosceva e amava.
Per certo, come testimonia la
riproduzione fotografica del taccuino, il racconto appare
tracciato alla maniera di un testo poetico,
con ampi spazi bianchi, che rimandano a suggestioni
di certa poesia mallarmeana e
visiva. Motivi criptici inseguono e prolungano, in quegli spazi, i meri significati dei
grumi verbali. Pur mancando il pletorico addensamento di
grovigli linguistici dell’Ulysses
e di Finnegans-Wake, ci
troviamo anche qui di fronte ad
una prosa che parla come nella poesia soprattutto attraverso il "come”.
E il discorso, frammentato, stringatissimo e poi aperto in quelle rivelazioni
bianche e allusive, rivela ancora una contiguità all’arte dei versi, dove le
visioni improvvise (definite
"epifanie" dallo scrittore), che configurano una tipologia o dei
caratteri, e svelano la realtà in un’intuizione improvvisata, saranno per loro
laconica natura più prossime all"evocazione violenta di un clima, di un
ethos, che a essere trasferite ad un esteso svolgimento di accadimenti concreti
(che qui mancano perché la ragazza proprio non ne vuol sapere, ecco).
Se per le opere narrative maggiori si
potrà parlare, come Eco ha fatto, di epifanie-struttura, qui invece abbiamo di
fronte un'epifania della parola isolata, della microproposizione descrittiva
che sradica le cose dalla loro condizione comunemente conosciuta, svelando
della donna ambita l'immagine preziosa e inattingibile di cui sopra, attraverso
rapide, coloristiche folgorazioni che fanno pensare alle rilucenti decorazioni
del "romance" o all'arabesco muliebre di Klimt. Lo scenario è
attraversato da nebbie oniriche che definiscono il solo spazio in cui diventa
possibile realizzare il desiderio di possederla. Lontano da quei sogni
ingannevoli, Giacomo non saprà, contraddittoriamente, non scorgere in lei pure
dei "falsi sorrisi", una leziosa gentilezza, un’ambigua virtù: già
qui, dopotutto, l'acre senso del grottesco che sarà di Ulisse.
Il risvolto da umor nero di un esteta che non può accontentarsi dell’estetismo.
Edizione considerata
James Joyce
Giacomo Joyce
Guanda