4 mag 2010

Etienne de La Boétie e l'Italia



L’odierna ma non nuova subcultura di un popolo pigro, quello italico, cinico e sentimentale, di consumatori del già dato e sempre pronti a servire il padrone di turno, immuni da qualsiasi tentazione riguardante la propria dignità, sembra manifestarsi apposta per dar ragione alla lettura scettica e virile che dell’umana specie dette in un libretto memorabile ma sconosciuto ai più l’umanista francese Etienne de La Boétie.
Il Discorso sulla servitù volontaria di questo eccellente filologo, nato intorno al 1550, traduttore dal greco, consigliere al Parlamento di Bordeaux, configurava un ritratto di quelle che poi si sarebbero chiamate “masse” da prendere oggi come stoica lezione non per derivarne una pratica politica autoritaria secondo la classica vulgata di destra ma per piantarla con il piagnisteo dei “bisogni della gente” che essa saprebbe soddisfare rispetto ai birignao inconcludenti delle sinistre. Pensiamo alla stucchevole pubblicistica che vorrebbe l’uomo di Arcore dotato di grande carisma, laddove La Boétie scriveva con benvenuta lucidità che un tiranno non ha altro potere se non quello che gli altri gli attribuiscono.
Questo amico del grande Montaigne non se ne capacitava: gli altri animali, scriveva, quando vengono catturati, dimostrano di essere consapevoli della loro sventura, “si dibattono con tanta forza con le unghie, le corna, il becco e la zampa da dimostrare chiaramente il prezzo che essi attribuiscono a ciò che perdono (…) e preferiscono gemere sulla felicità perduta piuttosto che crogiolarsi nella servitù”.
La Boétie trovava quindi la chiave di lettura della tirannia non in un di più del carnefice, quanto in una disposizione volontaria delle vittime – contente di asservirsi al primo. “Questo tiranno non sarebbe necessario combatterlo, né abbatterlo. Si dissolve da sé, purché il paese non accetti di essergli asservito. Non si tratta di togliergli qualcosa, ma di non dargli nulla. Non è necessario che il paese si affanni per fare qualcosa per sé, purché non faccia niente contro di sé. (…) E’ il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che pur potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo; che accetta il suo male, anzi lo cerca”.
Basterebbe un po’ di rispetto per se stessi, un banale desiderio di libertà che sia la propria e non quella del tiranno lasciato libero di fare ciò che crede – basterebbe avere l’animo di contraddirlo. 
 “Ciò che egli (il tiranno) ha in più sono i mezzi per distruggervi che voi stessi gli fornite. Dove ha ottenuto tutti quegli occhi che vi spiano se non da voi stessi?”. Per quanto pessimista fosse, La Boétie non poteva immaginare che la sua metafora si sarebbe trasformata cinque secoli dopo nell’enorme apparato di controllo costruito da milioni di teleschermi che ci guardano in luogo di essere guardati, che ci tengono buoni davanti allo spettacolo addestrati come domestiche bestiole. Né che il suo discorso potesse trovare agevoli e più tragicomiche conferme nelle vicende dell’homo italicus lungo un’arco storico che sembra non chiudersi mai. Mussolini, un po’ più spiccio, disse una volta che non era difficile farsi padrone di un popolo di servi (e alla vista di una mediocrazia così riuscita si sarebbe sentito uno sfigato).
Il libro è pieno di riferimenti al mondo greco-romano, dai cui exempla, alla maniera di Machiavelli – uno che gli italiani hanno letto come gli è parso e piaciuto, cioè alla cazzo di cane – il filologo trovava modo di cavare ragionamenti lucidissimi. “Ha qualche potere (il tiranno) su di voi che non gli derivi da voi stessi? Come oserebbe attaccarvi se non potesse contare sulla vostra complicità?”
L’infermità che ci condanna alla servitù è favorita dall’abitudine. Essa “esercita un enorme potere su di noi, soprattutto quello di insegnarci a servire e, come si tramanda di Mitridate che finì con l’assuefarsi al veleno, quello di insegnarci a inghiottire il veleno della servitù sena più trovarlo amaro” (suggerisco a proposito di questa nozione da niente che è l’abitudine di rileggere lo splendido saggio che Samuel Beckett dedicò a Proust). “L’abitudine – scrive ancora La Boétie – ci modella sempre a modo suo, a dispetto della natura. (…) La natura dell’uomo è di essere libero e di voler esserlo, ma prende facilmente un’altra piega quando è l’educazione a imprimergliela. La prima causa della servitù volontaria pertanto è l’abitudine”. E poi, siamo sempre lì, il “teatro, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori etc”, vecchi “strumenti della tirannide che addormenta i suoi sudditi”, i favori con cui si blandisce una parte del popolo, “zoticoni che non si avvedono di stare recuperando solo una parte di quel che gli appartiene” mentre il resto gli è stato tolto proprio dalla tirannia.
Anche sulla proposizione secondo la quale “il popolo ignorante è sempre stato così: disponibile e aperto verso il piacere che non può ottenere onestamente”, il caso italiano fa da luminosissimo esempio: mazzette e dritte e raccomandazioni mentre si viene spogliati di tutto. Diritti, giustizia, equità sociale. “Il popolino non è mai tanto asservito come quando ci si burla di lui”. E quanto gli piaccia ce lo ha ricordato recentemente Daniele Luttazzi, in un monologo che è tanto dispiaciuto a Francesco Piccolo, alla De Gregorio e altri sofisticatissimi ed eleganti cervelli della sinistra.
Ma qual è la molla segreta e più vera del potere? Non “gli squadroni a cavallo, le guardie, le alabarde,” etc. Non la forza come tale, insomma, piuttosto una rete di complicità che si allarga a dismisura, a partire da “quattro o cinque uomini che lo sostengono (il tiranno), complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, lenoni della sua lussuria, beneficiati delle sue rapine (…) Questi sei ne hanno seicento sotto di loro, corrotti che hanno alle loro dipendenze seimila che innalzano di grado, fanno dare loro il governo delle province o la gestione delle finanze allo scopo di tenerli in pugno, puntando sulla loro cupidigia o sulla loro crudeltà, perché essi le esercitino al momento opportuno e facciano tanto male da non poter più sostenersi se non alla loro ombra, da sfuggire alle leggi e alle sanzioni solo grazie alla loro protezione. Grande è la serie di quelli che vengono dopo…” la catena di comando e servitù dilatandosi in modo abnorme, ecco. Per cui, “a causa dei favori strappati ai tiranni si arriva a un punto ove quelli che traggono vantaggi dalla tirannide sono numerosi quasi come quelli che aspirano alla libertà”.
Verrebbe voglia di trascriverlo per intero, il libro di La Boétie, che non manca di notare lo zelo dei sottoposti, “vigliacchi e rammolliti”, i quali “non basta che eseguano gli ordini del tiranno, bisogna che immaginino quello che vuole e, spesso, persino che prevengano si suoi desideri”.
Potete agevolmente applicare alle figure disegnate qua sopra le facce quotidianamente vomitate in tivù, ridere dell’affanno con cui si cimentano nell’impresa, “essere intenti giorno e notte a riuscire graditi a un uomo, e a diffidare di lui più di qualsiasi altro al mondo!”.
Questo per le cerchie più strette - gli altri, la gran massa di italiani li vedete per strada, suppongo. La volontaria servitù che aspetta di rivoltarsi aggressivamente verso i più deboli è un dato niente affatto esoterico, verificabile nel rinnovato protagonismo di analfabeti padani, nord solo apparente di un altro sud, e nel fatalismo di quello propriamente detto, oscillante fra la ferocia malavitosa e l’accettazione di una subalternità animale indifferente alla legge e alla dignità.
Peccato che la narrativa italiana scansi come disdicevole il racconto di questa tristezza, costringendoci a tornare per l’ennesima volta al racconto busiano del Celestino Lometto che di queste nefandezze aveva fatto lezione – stanno tutti lì adesso a cercare le più immediate radici del male attuale negli anni ottanta: il perfido maestro li aveva raccontati in diretta, assieme al resto, servilismo compreso.

michele lupo

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