Nel giorno in cui si compie l'ennesimo massacro sociale, poiché non ho parole e anche se le avessi non direbbero nulla della rabbia che le muove, e poiché un blog come questo non può nulla contro la ferocia turpe di ciò che in queste ore si decide fra consiglio dei ministri e ciò che resta del parlamento, be', dirò un paio di cose di ordine più strettamente culturale. La prima è una considerazione, la seconda è la dimostrazione che se un blog come questo non può nulla contro Tremonti, la cricca, le banche e gli italiani di merda che non pagano le tasse, qualcosa per altri versi si può fare.
Nella deriva in corso favorita dalla
frana inarrestabile del senso critico e del coraggio di distinguere fra arte e
comunicazione, fra letteratura e intrattenimento, la chiacchiera demagogica di
stampo midcult dovrebbe assumersi qualche responsabilità.
Che non lo faccia il poseur torinese che agli esordi vent’anni
fa dichiarò esplicitamente di intendere la letteratura come spettacolo, che per
esso ha ridotto al piacere di una cena – vino californiano e non Barolo perché
più democratico, il primo – opere come l’Iliade,
privata dell’Olimpo (che è come togliere l’aldilà alla Commedia
dantesca), o l’immenso Moby Dick , che lo faccia un
imprenditore di se stesso insomma si capisce. Quello che va meno bene è il coro
allargato dell’indotto culturale.
C’è in giro, per esempio e non da
oggi, una gran voglia di lasciarsi alle spalle i mostri sacri del ‘900 – o
forse il ‘900, o solo i mostri sacri, per tenersi i mostri alla portata di
tutti. Si affannano i pochi fortunati che hanno la loro rubrichetta retribuita
di promozione editoriale che chiamano critica a fingere entusiasmi per operine
impapocchiate alla bell’e meglio che ci mostrano vie “inedite” per abbattere i
monumenti, imponenti e inerti, che possiamo finalmente lasciarci alle spalle.
Se non fosse che spesso si coglie
un’acredine sospetta che attraverso il revisionismo critico sui grandi nomi cerca di sdoganare quintali di mondezza appiccicandole addosso l’etichetta di
letteratura – perché a quella ci si tiene, va da sé. Com’è successo con Marx
dalle parti del pensiero politico, piace ai più sbarazzarsi della complessità e
ubriacarsi di divertimento chic – hai visto che la Dandini e Fazio non ti
invitano.
Quando sull’inserto settimanale del
“Corriere della Sera” il solito noto che la Dandini ha definito “il grande
critico letterario” ha sentenziato “che palle Musil, Kafka e Joyce” si è
sentito un gran fico. Molte signore mie appresso a lui hanno tirato il famoso sospiro
di sollievo; nello stesso tempo abbiamo assistito a una valanga di “grandi
scrittori”. Non gli autori del Processo, o dell’Uomo
senza qualità – bensì disinvolti nostrani narratori
specializzati in serial-killer (indomiti, gli uni e gli altri) in sedicenti
prese di posizione politicamente scorrette, ahimé prevedibilissime, in
performance enogastronomiche vendute come romanzi
Siamo o no in democrazia? Ce
l’abbiamo o no una bella trasmissione culturale “de sinistra” che c’invita –
garante il buon Michele Serra - a
leggere (e definire come “straordinari”) i libri (sic) di Roberto Vecchioni e
Uolter Veltroni? Vorremo marcare la differenza con i minus habentes della
pescivendola padrona dell’Isola? “Parla come parla la maggioranza della gente”
– ha detto un troglodita a Busi
qualche mese fa. Erano entrambi in mutande, immagino facesse caldo. Siccome
Busi, che ha scritto alcune delle più belle pagine degli ultimi trent’anni, non
è un eroe, non lo ha picchiato. Michele Mari pare invece di sì, pare che gli si
sia parato davanti, nel suo ufficio milanese, e gli abbia mollato un ceffone,
al grande critico di cui conciona la contessa Dandini.
Qualcosa per certi versi si può fare.
Qualcosa per certi versi si può fare.