Una buona scuola
minimum fax
Diciamolo subito: A good school, breve romanzo in cui il grande Richard Yates raccontò le vicende di una mediocre scuola privata del New England negli anni Quaranta, non è paragonabile a Revolutionary Road, il suo celebre capolavoro (peraltro quasi sconosciuto al pubblico italiano – e non solo - prima che uscisse l’omonimo film l’anno scorso). Tuttavia, a parte le tracce di un’esperienza biografica mai troppo entusiasmante, segnata com’era dal riconoscibile marchio – fors’anche un luogo comune ma tutt’altro che campato per aria - della peculiare difficoltà di molti scrittori a sfangare la vita, il libro presenta indubbi motivi d’interesse legati al complesso mondo dell’adolescenza, all’ambiguo e tormentato rapporto degli studenti con quella sorta di universo a parte che è la scuola, e non ultima alla relazione fra loro e gli insegnanti.
Scritto in uno dei periodi peggiori di Yates (che non ebbe certo una vita facile, anche perché la sua grandezza non venne riconosciuta in vita se non da altri, pochi, scrittori), A good school è una storia corale costruita, più che su un vero e proprio intreccio, sull’andamento rapsodico e a volte enigmatico che scandisce la vita di ragazzi di volta in volta perplessi o fantasiosi, e professori sfigati ma non sempre disposti ad arrendersi. Molti fra i primi vivono in un’impossibile costellazione di sogni destinati a infrangersi sull’immagine allo specchio futuro che viene loro restituita dalla vita che di lì a poco li metterà di fronte alla terribilità della guerra (il secondo conflitto mondiale). I secondi, avendo passato la linea d’ombra, sembrano aspettarsi solo che il destino porti a termine quello che ha iniziato molto tempo prima – cercando di stare dignitosamente dentro il ruolo che quel destino ha ritagliato per loro. Ma quella che sembra una deriva lenta e già saputa esplode invece in una catastrofe di cui la stessa scuola si farà carico finendo per trasformarsi in un centro di accoglienza dei soldati feriti.
Pur concedendo il dovuto alla narrazione dell’ovvio, rituale sistema di amicizie e rivalità, del contrassegno tipicamente adolescenziale della guerra per bande e del confronto ludico e serio insieme fra giovani intenti a primeggiare, a conquistare cuori femminili, il racconto di A good school rinuncia all’implacabile ferocia con cui Yates abitualmente ci racconta le sue storie. Qui il punto di vista del narratore sembra girovagare con uno sguardo elegiaco, a volte umoristico, altre malinconico, da un punto all’altro di questo college rattoppato, come per salvare il tempo che precede la perdita dell’innocenza dal saccheggio implacabile della verità. Yates svela in questo romanzo un tono più tenero del solito, quasi di simpatia per i suoi adolescenti confusi, incerti, senza però mai diventare stucchevole (Yates disprezzava, parole sue, l’ottimismo sentimentale e facilone degli americani). E’ come se volesse dirci che all’adolescenza possiamo perdonare tutto, anche di averci ingannato. Del resto non manca il tratto del grande maestro, che è poi, trattandosi di Yeats, il racconto per nulla ostentato o manieristico della crudeltà; si veda l’episodio in cui William Grove, il personaggio più in vista del romanzo, di confessata matrice autobiografica, il più sfigato di tutti, il più goffo, il più timoroso, viene preso dai soliti tre o quattro teppistelli, denudato, deriso e masturbato a forza. La scena è forte ma credibile e quasi domestica nella verosimiglianza descrittiva. Ciò detto, è un racconto che rifiuta la spettacolarizzazione, quindi quanto di più vicino al vero si possa pretendere da un romanzo. Grove troverà nella scrittura, sia pure solo quella del giornale della scuola, lo strumento per riacquistare un minimo di prestigio, ma soprattutto rispetto di sé. Che era poi la sola salvezza consentita al grande scrittore americano, ciò di cui aveva bisogno per combattere il suo male oscuro e scrivere i suoi libri. A questo genere di sacrificio, i bravi insegnanti sono molto sensibili. Come tutti i veri lettori, del resto.