4 gen 2010

Patrie lettere: meglio i cazzari o i tromboni? (nessuna ironia)

apparso con lo stesso titolo su http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl 
Una scarpinata rapsodica fra le approssimative, interessate questioni non sai quanto di marketing o di poetica messe in vetrina nelle recenti querelles letterarie nostrane può offrire qualche utile motivo di riflessione. Nell’implacabile discesa verso il fondo di senso, verso l’azzeramento delle attese riguardanti la letteratura, una specola di osservazione interessante è offerta dal maneggio approssimativo di parole e concetti più complessi di quanto non vogliano le contingenti urgenze personali. La faccenda dell’ironia è una di queste.
Torno su un coté ebraico dopo il bel Kalooki Nights  di Howard Jacobson. Il libro del giovane scrittore americano Shalom Auslander, Il lamento del prepuzio (Guanda) è
 un memoir ed è stato avvicinato dalla critica indovinate a chi? a Roth, naturalmente, Philip. Laddove c’è una voce narrante che rimesta nei clichè dell’ebreitudine, dei codici di quel mondo, e lo fa in chiave umoristica, si tira fuori il grande vecchio. Dimenticando che l’umorismo ebraico non lo ha inventato lui, evidentemente. Sono fra quelli, chi per convinzione (personalmente da quando è morto Saul Bellow), chi per luogo comune cui non è estraneo lo sbalordito e ogni volta rinnovato stupore per la pure stucchevole storiaccia del Nobel, che ritengono l’autore di Pastorale Americana (per dire, una cosa che con quello di cui stiamo parlando non c’entra niente) il più grande scrittore vivente. Tirarlo fuori ogni volta, però, sembra un tic autistico della critica, spesso ignorante non di cose ebraiche – il che non è un reato – ma di letteratura tout court, la qual cosa invece è grave se pretendi di scriverne. Col che si finisce per attribuire parentele rothiane a qualsiasi libro in cui sia presente un io a metà fra il finto ingenuo e il malandrino, abbastanza spiritoso e ossessionato dalla fica (e più spesso dal proprio uccello per lunghi, sfibranti solitari) – addirittura, da noi, a leggere Dorry Cojons, per iscriversi alla casata di Newark basta infilare due battutine ironiche; direi, basta fare l’ironico, ossia prendere le distanze da ciò che si fa e/o si dice: non per mantenersi sobri rispetto a se stessi e tenere a bada il fanatismo dell’ego, ma per cifrare proprio nell’ironia il proprio modo di rappresentarsi: guardate me quanto sono ironico, quanto sono fico proprio perché ironico, quanto sono superiore a far finta di non prendermi sul serio!
Ora, se l’ironia costruisce una distanza dalla propria voce, l’ironico per partito preso, l’ironico integrale, senza accorgersene nel suo falsetto dice di sé che non è nulla, che non può non essere epigonico, flatus vocis, pallida copia: inutile. Tanto è vero che in Italia - questo locus amoenus fatto apposta per le cazzate - se uno viene beneficiato della parentela con Roth, quando sente fare delle obiezioni al riguardo, s’incazza. Non se la prende tanto per gli appunti mossi a ciò che scrive in sé, o a come lo fa, ma perché si contesta che quella parentela stia in piedi. Ovvio che se un Cojons qualunque su un giornale non qualunque ti dà quel genere di calcio in culo per farti volare nell’apprezzamento dei lettori e magari del mercato, ci metti volentieri la vaselina. Meno ovvio è non rendersi conto che per Roth, l’ironia o il comico sono forme attraverso cui passa il tragico – così fai venire il sospetto che davvero non hai capito niente, di Roth e non solo, e che è proprio per questo che ci tieni a quella parentela; ci tieni perché il massimo per te è “essere come”, “assomigliare a”, “fare la figura di”. L’essere (verbo) è tragico, chi non è mai e in nessun modo non può che presentarsi come un ironico per partito preso – più un cazzone che un cazzaro, scrittore solo nominalmente.
Auslander, figlio di una coppia di ebrei ortodossi autoritari e autolesionisti nella più classica, castrante versione del dio vetero-testamentario, per liberarsi da quelle fisime è costretto a rifugiarsi da uno psichiatra.Su suo consiglio, avendo deciso di chiudere con la propria famiglia - Monsey, stato di New York -per tenere in piedi la nuova con una moglie e un figlio prende a raccontare la terribile educazione che ha cercato di schiacciarlo in uno stato di minorità psicologica mortificante. La scrittura assume qui un valore apotropaico e non di mero intrattenimento. Se l’humour è nei tempi, nel ritmo della scrittura (a volte pedante nell’elencazione di riti e obblighi della comunità di appartenenza), l’assurdo è nelle situazioni stesse, laddove il tragico è l’intermittente voglia di suicidarsi da cui Auslander si salva appunto scrivendo: solo così può riuscirgli la paradossale impresa dell’ennesimo, ribelle figlio di Mosè: portare (suo) figlio a una Terra Promessa dove non c'è alcun Dio. Personalmente glielo auguro, perché qui, è bene ricordarlo, non c’è un Portnoy inventato, ma la storia dell’autore, con nome e cognome, almeno i propri. “Suicidarsi – ha rivelato da qualche parte Auslander, che scrive sul «New Yorker» e lavora alla radio – è la sola soluzione sensata quando hai la testa piena di cose che rendono ogni momento della tua vita insopportabilmente doloroso. Per sua fortuna ha trovato come rimediare. “L'umorismo – ha detto anche - è l'unica cosa che renda la vita sopportabile”, il che non gli è bastato per non andarsene assieme a moglie e figlio lontano dai suoi luoghi d’origine, in un posto in cui, se è vero che in “una sola eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi” l’equivalente di “circa nove olocausti”, può anche masturbarsi senza per questo rendersi agli occhi dei vicini “colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno”.
 Ma non dev’essere finita lì, visto che Auslander ha ricevuto molte e-mail minacciose e intrise d'odio per aver riso della soffocante vita in versione ebraico-ortodossa.
Insomma, da ridere c’è, ma come sempre nella buona letteratura siamo dentro una dimensione che inscena un conflitto, indizia una crisi, produce un collasso di senso (del senso comune di chi ti circonda) – e non importa di che genere e in quale modalità (uno scrittore non è tenuto a raccontare il conflitto sociale, o la camorra, altrimenti Saviano sarebbe un gigante e Proust uno gnomo, ma soltanto un demente non vede in Proust, aldilà dello spettacolo mondano, la tragedia della riduzione dell’umano a vacua figurazione scenica).
Da noi, ai cazzari ironisti per contratto, si contrappongono i tromboni, allestitori di poetiche che si dicono rivoluzionarie perché richiamano un sedicente orizzonte epico quale solo percorso possibile della letteratura e ne dettano i principi. Odiano l’ironia.
Secondo il compianto David Foster Wallace, spesso tirato in ballo a cazzo, l’atteggiamento vacuo e annoiato presente nell’ironia era (è) figlio in tutto e per tutto della televisione  (DFW a sua volta citava il critico Lewis Hyde, secondo il quale “l’autoironia è sempre una forma di sincerità interessata”). Come a dire: nel linguaggio stesso della tv, nella sua stessa parola - autoreferenziale, indifferente ai contenuti, ir-responsabile – si produce una strutturale, intrinseca auto-assoluzione. S’ipostatizza il codice interno all’inquadratura come una forma a sé che si definisce come alterità irriducibile alla realtà e perciò a essa indifferente (sino al punto di sostituirvisi per evidente incapacità della seconda di r-esistere fuori dal plasma). L’opera di DFW si situa certo in un punto di frattura tra la fagocitante esperienza postmoderna che nell’ironia trovava una cifra quasi dogmatica (interessante paradosso) e la necessità di recuperare una voce presente a se stessa e responsabile del discorso che fa, senza ricadere in un’impossibile, patetica ingenuità, né in una rozza nozione di realismo.
Da noi si semplifica con una certa disinvoltura. Sui residui spazi rimasti per le discussione letteraria non leggi solo di ironisti per contratto che pesano letterariamente quanto la Littizzetto, ma anche di memorandum di gruppettari che nelle loro liste di appartenenza infilano titoli improbabili, goffi canoni ideologici e dimenticano che Foster Wallace proprio nelle stesse righe scritte, e da essi citate, “contro l’ironia” sostiene che “il guizzo (in letteratura) è personale, idiosincratico”.
Insomma, che si tratti di tromboni o di cazzari, non diversamente da quanto succede in politica, non puoi fare a meno di chiederti se ci sono o ci fanno. Se davvero credono alle loro dichiarazioni di poetica o beccato il pesciolino dello spazio editoriale si tengono stretti l’amo fino a quando non si spezza. Sei costretto a ricordare che l’ironia non è solo quella preventiva, debole, funzionale a un’immagine da vendere a un pubblico avventizio che si fida delle recensionistica marchettara; l’ironia è anche parola dialogica, plurivocità, scetticismo critico, rifiuto dei dogmi – basta scorrere repertori letterari, dizionari di linguistica, storie della filosofia da Socrate in avanti, a meno di non considerare l’ormai dimenticato Bachtin un coglione.
Forse occorre un po’ di ripasso dei fondamentali: quando i mandarini nostrani pretendono di scrivere il verbo decisivo dell’attuale letteratura italiana, prendendosi così maledettamente sul serio da non far caso al fatto principale, la qualità modesta, l’inerzia dei propri testi, l’ironia sorge, come si suol dire, spontanea.






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