apparso con lo stesso titolo su http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl
Una
scarpinata rapsodica fra le approssimative, interessate questioni non sai
quanto di marketing o di poetica messe in vetrina nelle recenti querelles
letterarie nostrane può offrire qualche utile motivo di riflessione.
Nell’implacabile discesa verso il fondo di senso, verso l’azzeramento delle
attese riguardanti la letteratura, una specola di osservazione interessante è
offerta dal maneggio approssimativo di parole e concetti più complessi di
quanto non vogliano le contingenti urgenze personali. La faccenda dell’ironia è
una di queste.
Torno
su un coté ebraico dopo il bel Kalooki
Nights di Howard Jacobson. Il libro del giovane scrittore americano Shalom
Auslander, Il
lamento del prepuzio (Guanda)
è
un memoir ed è stato avvicinato
dalla critica indovinate a chi? a Roth, naturalmente, Philip. Laddove c’è una
voce narrante che rimesta nei clichè dell’ebreitudine, dei codici di quel
mondo, e lo fa in chiave umoristica, si tira fuori il grande vecchio.
Dimenticando che l’umorismo ebraico non lo ha inventato lui, evidentemente.
Sono fra quelli, chi per convinzione (personalmente da quando è morto Saul
Bellow), chi per luogo comune cui non è estraneo lo sbalordito e ogni volta
rinnovato stupore per la pure stucchevole storiaccia del Nobel, che ritengono
l’autore di Pastorale Americana (per dire, una cosa che con quello di
cui stiamo parlando non c’entra niente) il più grande scrittore vivente.
Tirarlo fuori ogni volta, però, sembra un tic autistico della critica, spesso
ignorante non di cose ebraiche – il che non è un reato – ma di letteratura tout
court, la qual cosa invece è grave se pretendi di scriverne. Col che
si finisce per attribuire parentele rothiane a qualsiasi libro in cui sia
presente un io a metà fra il finto ingenuo e il malandrino, abbastanza
spiritoso e ossessionato dalla fica (e più spesso dal proprio uccello per
lunghi, sfibranti solitari) – addirittura, da noi, a leggere Dorry Cojons, per
iscriversi alla casata di Newark basta infilare due battutine ironiche; direi,
basta fare l’ironico, ossia prendere le distanze da ciò che si fa e/o si dice:
non per mantenersi sobri rispetto a se stessi e tenere a bada il fanatismo
dell’ego, ma per cifrare proprio nell’ironia il proprio modo di rappresentarsi:
guardate me quanto sono ironico, quanto sono fico proprio perché ironico,
quanto sono superiore a far finta di non prendermi sul serio!
Ora,
se l’ironia costruisce una distanza dalla propria voce, l’ironico per partito
preso, l’ironico integrale, senza accorgersene nel suo falsetto dice di sé che
non è nulla, che non può non essere epigonico, flatus vocis, pallida copia:
inutile. Tanto è vero che in Italia - questo locus amoenus fatto apposta
per le cazzate - se uno viene beneficiato della parentela con Roth, quando
sente fare delle obiezioni al riguardo, s’incazza. Non se la prende tanto per
gli appunti mossi a ciò che scrive in sé, o a come lo fa, ma perché si contesta
che quella parentela stia in piedi. Ovvio che se un Cojons qualunque su un
giornale non qualunque ti dà quel genere di calcio in culo per farti volare
nell’apprezzamento dei lettori e magari del mercato, ci metti volentieri la
vaselina. Meno ovvio è non rendersi conto che per Roth, l’ironia o il comico
sono forme attraverso cui passa il tragico – così fai venire il sospetto che
davvero non hai capito niente, di Roth e non solo, e che è proprio per questo
che ci tieni a quella parentela; ci tieni perché il massimo per te è “essere
come”, “assomigliare a”, “fare la figura di”. L’essere (verbo) è tragico, chi
non è mai e in nessun modo non può che presentarsi come un ironico per partito
preso – più un cazzone che un cazzaro, scrittore solo nominalmente.
Auslander, figlio di
una coppia di ebrei ortodossi autoritari e autolesionisti nella più classica,
castrante versione del dio vetero-testamentario, per liberarsi da quelle fisime
è costretto a rifugiarsi da uno psichiatra.
Su suo consiglio, avendo deciso
di chiudere con la
propria famiglia - Monsey, stato di New York -per tenere in piedi la nuova con
una moglie e un figlio prende a raccontare la terribile educazione che ha cercato di
schiacciarlo in uno stato di minorità psicologica mortificante. La scrittura
assume qui un valore apotropaico e non di mero intrattenimento. Se l’humour è
nei tempi, nel ritmo della scrittura (a volte pedante nell’elencazione di riti
e obblighi della comunità di appartenenza), l’assurdo è nelle situazioni
stesse, laddove il tragico è l’intermittente voglia di suicidarsi da cui
Auslander si salva appunto scrivendo: solo così può riuscirgli la paradossale
impresa dell’ennesimo, ribelle figlio di Mosè: portare (suo) figlio a una Terra
Promessa dove non c'è alcun Dio. Personalmente glielo auguro, perché qui, è bene
ricordarlo, non c’è un Portnoy inventato, ma la storia dell’autore, con nome e
cognome, almeno i propri. “Suicidarsi – ha rivelato da qualche parte Auslander,
che scrive sul «New Yorker» e lavora alla radio – è la sola soluzione sensata
quando hai la testa piena di cose che rendono ogni momento della tua vita
insopportabilmente doloroso. Per sua fortuna ha trovato come rimediare.
“L'umorismo – ha detto anche - è l'unica cosa che renda la vita sopportabile”,
il che non gli è bastato per non andarsene assieme a moglie e figlio lontano
dai suoi luoghi d’origine, in un posto in cui, se è vero che in “una sola
eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi” l’equivalente di “circa
nove olocausti”, può anche masturbarsi senza per questo rendersi agli occhi dei
vicini “colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno”.
Ma non
dev’essere finita lì, visto che Auslander ha ricevuto molte e-mail minacciose e
intrise d'odio per aver riso della soffocante vita in versione
ebraico-ortodossa.
Insomma, da ridere
c’è, ma come sempre nella buona letteratura siamo dentro una dimensione che
inscena un conflitto, indizia una crisi, produce un collasso di senso (del
senso comune di chi ti circonda) – e non importa di che genere e in quale
modalità (uno scrittore non è tenuto a raccontare il conflitto sociale, o la
camorra, altrimenti Saviano sarebbe un gigante e Proust uno gnomo, ma soltanto
un demente non vede in Proust, aldilà dello spettacolo mondano, la tragedia
della riduzione dell’umano a vacua figurazione scenica).
Da noi, ai cazzari
ironisti per contratto, si contrappongono i tromboni, allestitori di poetiche
che si dicono rivoluzionarie perché richiamano un sedicente orizzonte epico
quale solo percorso possibile della letteratura e ne dettano i principi. Odiano
l’ironia.
Secondo il compianto
David Foster Wallace, spesso tirato in ballo a cazzo, l’atteggiamento vacuo e
annoiato presente nell’ironia era (è) figlio in tutto e per tutto della
televisione (DFW a sua volta
citava il critico Lewis Hyde, secondo il quale “l’autoironia è sempre una forma
di sincerità interessata”). Come a dire: nel linguaggio stesso della tv, nella
sua stessa parola - autoreferenziale, indifferente ai contenuti,
ir-responsabile – si produce una strutturale, intrinseca auto-assoluzione.
S’ipostatizza il codice interno all’inquadratura come una forma a sé che si
definisce come alterità irriducibile alla realtà e perciò a essa indifferente
(sino al punto di sostituirvisi per evidente incapacità della seconda di
r-esistere fuori dal plasma). L’opera di DFW si situa certo in un punto di
frattura tra la fagocitante esperienza postmoderna che nell’ironia trovava una
cifra quasi dogmatica (interessante paradosso) e la necessità di recuperare una
voce presente a se stessa e responsabile del discorso che fa, senza ricadere in
un’impossibile, patetica ingenuità, né in una rozza nozione di realismo.
Da noi si semplifica
con una certa disinvoltura. Sui residui spazi rimasti per le discussione
letteraria non leggi solo di ironisti per contratto che pesano letterariamente
quanto la Littizzetto, ma anche di memorandum di gruppettari che nelle loro
liste di appartenenza infilano titoli improbabili, goffi canoni ideologici e
dimenticano che Foster Wallace proprio nelle stesse righe scritte, e da essi
citate, “contro l’ironia” sostiene che “il guizzo
(in letteratura) è personale, idiosincratico”.
Insomma, che si tratti
di tromboni o di cazzari, non diversamente da quanto succede in politica, non
puoi fare a meno di chiederti se ci sono o ci fanno. Se davvero credono alle
loro dichiarazioni di poetica o beccato il pesciolino dello spazio editoriale
si tengono stretti l’amo fino a quando non si spezza. Sei costretto a ricordare
che l’ironia non è solo quella preventiva, debole,
funzionale a un’immagine da vendere a un pubblico avventizio che si fida delle
recensionistica marchettara; l’ironia è anche parola dialogica, plurivocità,
scetticismo critico, rifiuto dei dogmi – basta scorrere repertori letterari,
dizionari di linguistica, storie della filosofia da Socrate in avanti, a meno
di non considerare l’ormai dimenticato Bachtin un coglione.
Forse
occorre un po’ di ripasso dei fondamentali: quando i mandarini nostrani
pretendono di scrivere il verbo decisivo dell’attuale letteratura italiana,
prendendosi così maledettamente sul serio da non far caso al fatto principale,
la qualità modesta, l’inerzia dei propri testi, l’ironia sorge, come si suol
dire, spontanea.