La solitudine del maratoneta
minimum fax Pag. 223 Euro 11,50
Provate a immaginare un singolare incrocio fra Rosso Malpelo e il giovane Holden, aggiungete un’iniezione di rabbia supplementare e avrete un personaggio straordinario, uno splendido ceffo da riformatorio, ribelle, malinconico e strafottente, cui Alan Sillitoe dà vita con grazia ammirevole e resistentissima agli anni. La solitudine del maratoneta, racconto eponimo di questa bella raccolta che la casa editrice romana invia in libreria con la vecchia ma viva anch’essa traduzione di Vincenzo Mantovani, ha ormai cinquant’anni ma davvero non li dimostra. Chissà, forse ha fatto bene all’autore prendere le distanze dal gruppo degli “Angry Young Men” della scena inglese cui fu accostato, forse è meglio che se ne sia infischiato del progetto poetico dei vari Osborne e Larkin e del Free Cinema coevo – cui pure partecipò (non v’è bisogno di ricordare il film tratto dal suo libro, da lui stesso adattato, o altri lavori dell’epoca).
S’intende, Sillitoe non sprecò troppe chiacchiere di poetica e si è concentrato per tutta la vita sulla pagina da scrivere. Se la sua regge benissimo il tempo e degli altri non sempre può dirsi lo stesso, ha avuto ragione lui. E’ un fatto che la rabbia che accomunava il gruppo, in questo libro è tanto spietata quanto piena di energia. Respiri leggendola uno humour beffardo e una carica vitalissima. Attraverso la fibra nervosa della scrittura di Sillitoe entriamo negli squallidi slums di Nottingham di mezzo secolo fa, fra operai, sbandati, ladruncoli e famiglie che campano alla meno peggio. La grandezza di Sillitoe è la grandezza paradossale del maratoneta che gli aguzzini del riformatorio vogliono spingere a vincere la gara per farsi belli e usurparne gloria e vantaggi. Ma il rognosissimo Smith, pischello fatto uomo troppo presto, sa che la gara “è una presa in giro”, così, poco prima di tagliare il traguardo, decide di mollare, fa finta di non farcela e si lascia superare, perché sa che quella non sarebbe la sua vittoria ma il surrettizio, disonesto trionfo dei suoi aguzzini. Smith non accetta il destino costruito per lui da chi lo ha messo in gabbia, e in tal modo sceglie da sé la propria disperazione. E’ una disperazione più alta, a suo modo nobile ed eroica – come sempre quando si decide da sé di che morte morire. La classicità di Sillitoe ha qualcosa dell’energia rock nel suo tono d’antan – una musica ormai morta che ha segnato però una stagione importante del ‘900. E’ quello che senti qua dentro, in questa scrittura secca e veloce, nella voce di questo personaggio bellissimo come nel sound degli anni buoni del rock: l’urgenza di una domanda forse inconsapevole, pre-politica, un desiderio di libertà e giustizia che si esprime come una potenza necessaria, primigenia. Nella corsa solitaria del maratoneta che decide di perdere perché sa che quello è il solo gesto di libertà che può permettersi (gesto che non ha intenzione di barattare con niente) c’è uno dei modi di declinarsi della letteratura: la sorpresa di trovare più ragionevoli le parole solitarie di un ragazzo che accetta la sfida del male (sa che una volta fuori, ricomincerà a rubare e non fa troppe storie), e vi si immerge e partecipa con le sue sole forze, che quelle di editorialisti “democratici” che accettano le retoriche imposte dal potere. Qui è in gioco la vita nuda e cruda, anche nella versione malinconica (altrimenti che rock sarebbe?) assolutamente perdente degli altri personaggi della raccolta, vittime e carnefici di una violenza che è la lingua stessa del mondo fabbricato da chi delle fabbriche (londinesi e non) era (è) padrone. Soli, non abbassano mai la cresta, e anche quando sono patetici, lo sono con stile. Miracolo di un grande scrittore.
michele lupo