La vita facile
Giano Editore, Pag 505 Euro 19
“Vuoi un movente? Eccolo. Gli uomini reagiscono in modo eccessivo al dolore”.
Basterebbero queste parole scambiate fra due agenti alle prese con un omicidio la cui soluzione appare solo alla fine di cinquecento pagine per iniziarci a un’idea del noir ancora sostenibile. Una racconto poliziesco, quello di Richard Price, non intenzionato a infliggerci i clichè del genere quanto l’ambizione di raccontarci brani di mondo con lo sguardo acuto di chi sa osservarlo e restituirlo sulla pagina senza le pretese sociologiche delle militanze corrive o le fumisterie scambiate per epica dai mandarini nostrani (si sa, da noi quando manca la scrittura, la si butta in poetica).
Ne La vita facile, crime-story ambientata nel Lower East Side di Manhattan, storico quartiere newyorkese ad altissimo tasso di immigrazione dove confliggono mondi diversi tra loro, lo scrittore-sceneggiatore americano (una rispettabile carriera nel cinema, dal Cocker di Spike Lee a Il colore dei soldi) - si è ispirato a un omicidio realmente avvenuto. E’ evidente che se sfangarsela spesso significa sconfinare nel crimine, e se basta un “dolore eccessivo” per saltare il fosso, la letteratura non è obbligata a compiacersi di spettacoli ematici né a lambiccarsi nell’indagine poliziesca fine a se stessa (benché in questo caso appassionante per la strepitosa bravura dello scrittore). Invece di un meccano al servizio di una lettura da passatempo, ciò che preme raccontare a Price è l’odierna balzacchiana competizione per la vita di bianchi, neri, ispanici, e disgraziati di diverso colore che sono costretti a vivere fianco a fianco senza amarsi nemmeno un po’ in un luogo della terra che, crisi americana o meno, costituisce ancora un centro dell’immaginario di molti. Questa ambizione “realistica” da noi oggi è molto vagheggiata e sponsorizzata, ma assai poco soddisfatta. Ché, alla fin fine, le buone intenzioni non fanno la qualità della scrittura. In quella di Price - ottimamente tradotta da Stefano Bortolussi - avvertiamo un suono molto realistico, attento com’è alla lingua dei personaggi, alla varietà dei loro registri espressivi. Price dice di costruire la sua scrittura partendo dalla strada; lì passa il suo tempo con persone simili a quelle che vuole raccontare. Be’, a farlo bisogna aver talento, ché la pratica è insidiosa e andrebbe sconsigliata ai creduli fan del documento. Difatti, va da sé che un talento come questo non lo fabbrichi stando in strada (quello è solo l’inizio) né tantomeno con due trucchetti da scuola creativa. Leggere per credere: immaginatevi una scena di trenta pagine in cui due poliziotti interrogano un povero cristo, un aspirante scrittore, sospettato di aver a che fare con l’omicidio che costituisce il centro narrativo della storia. Immaginate uno scrittore che sappia tenere una scena del genere costruendo tratto per tratto, battuta per battuta, confessione per confessione e menzogna per menzogna la fisionomia e l’esistenza del personaggio limitando le descrizioni all’essenziale e puntando tutto sul dialogo. Se ci riuscite avrete un premio: una narrazione persuasiva come poche, avvincente, un ritratto spietato dell’umanità deragliata fra armi e droga di quella che ancora oggi è la metropoli per eccellenza. Scusate se è poco. Come ha detto l’autore in un’intervista a Tommaso Pincio apparsa tempo fa sul manifesto: “Il dialogo realistico è frutto di un illusionismo, il trucco consiste nel prendere tutto quel caos verbale e comprimerlo in qualcosa che vada in una direzione, restituendo l'idea di una cosa che in realtà è falsa”.
Per chi volesse, vale mille lezioni di scrittura creativa.