20 gen 2011

Recensione a I fuoriusciti - Lucia Tosi, LPELS

un grazie di cuore alla pestifera 

Vestiti, fuoriusciamo
di Lucia Tosi


Michele Lupo ha pubblicato numerosi racconti su riviste letterarie, un romanzo, L’onda sulla pellicola, Besa Editrice, 2004, un altro romanzo è atteso per la prossima primavera. Fresca di stampa la raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo editrice, 2010, E. 10,00.
Di queste “Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette“, eloquente sottotitolo, colpisce innanzi tutto l’assenza del finale regolamentare, quello che vorrebbe il racconto, felice o tragico, in sé compiuto, risolto, ma più ancora l’intento esatto, pervicacemente ricercato, di non sedurre il lettore. Paradossalmente la seduzione arriva puntuale: i diversi registri con i quali le sei storie “aperte” sono raccontate, il malessere che vi si respira, l’etica, apparentemente esclusa, che ricompare silenziosa, in absentia, in ogni racconto, sono almeno tre buoni motivi che inducono il lettore a leggere d’un fiato la raccolta, specie di affresco su un’umanità di marginali, reietti, dimenticati, che spessso ci scorre accanto, senza averne, peraltro, gli aspetti canonici più eclatanti.
Nel ripensare al tratto comune dei diversi personaggi, protagonisti o comprimari, torna utile l’aggettivo fastidioso, dallo spessore quasi fisico, in un’accezione un po’ più ampia che il solo noiosoirritante, come recita il Devoto-Oli; vi si aggiunga sgradevole, imbarazzante: ciò che preferiresti non vedere, non toccare, che ti suscita un moto di repulsione che però devi trattenere, perché il tipo del “fastidioso” non commette mai atti eccessivi, degni di una reazione vistose.
I personaggi dei sei racconti contenuti ne I fuoriusciti sono così: altamente sgradevoli, fastidiosi. Goffi, rinunciatari, perdenti; grassi, sudaticci, convenientemente sporchi; deliranti, fissati, crudeli; dediti più o meno tutti a qualche bassezza, ma allo stesso tempo così normali che ti chiedi che ci stanno a fare dei personaggi siffatti dentro a delle storie.
Insopportabile, nel suo glamour da belloccia di periferia in là con gli anni, l’oca – un’autentica oca, come non se ne vedevano da un po’ – de La sciarpa verde, che la sorella maggiore, meno giuliva, vorrebbe raddrizzare, salvo il fatto che, detto en passant, quest’ultima – scopriamo non senza una certa dose di irritazione – si dà buon tempo, regolarmente, con il benestare di un marito che ha l’unico difetto di scordarsi a volte, nelle sue, di scappatelle, il preservativo, cosa su cui essa non transige!
I racconti si leggono agevolmente: la prosa è limpida, a tratti reticente, a volte sapientemente avara. Verista, per quanto lo consenta l’uso prevalente della prima persona, specie in Gatti del Sud, racconto che si chiude con pochissime pennellate magistrali, come se l’ex-ragazzino, tornato nei luoghi della sua infanzia (luoghi di misfatti odiosi, da lui compiuti, che ricordano certe scene di Novecento di Bertolucci, quelle per stomaci forti, per intenderci) avesse fretta di concludere per andare oltre quel passato, da cui emergono situazioni e figure forti, determinanti, come il nonno, mitico, “immortale“. A proposito della nonna, cogliamo l’io narrante – sarebbe il caso di ricorrere all’espressione “io poetico” – chiudere la vicenda con tre verbi negativi, in climax discendente, nel ritmo di un quinario e due ottonari:
Quella donna morì poco dopo, senza che nessuno fosse riuscito a diagnosticarle alcuna malattia precisa. Semplicemente, in quelle tre settimane che impiegò per ricongiungersi all’uomo con cui aveva diviso la vita, smarrì il senno, disimparò l’alfabeto e non ci riconobbe più.
Preferibilmente paratattico, Michele Lupo tuttavia fugge dalla tentazione, oggi parecchio diffusa, di scrivere come si mangia (e molti non sanno di mangiare veramente male), accostando la necessaria frase al grado zero, che più zero non potrebbe nemmeno Roland Barthes, ad una, al contrario, resa preziosa non da trovate ginniche, ma da un’immagine, un vocabolo scelto con cura, laddove un sinonimo meno raro non avrebbe tuttavia stonato.
E’ il caso, in particolare, di Ego te absolvo, in cui l’autore mima, con ferocia contenuta (se ne avverte il sorriso), le elucubrazioni di un prete malato, in una “memoria” destinata al suo psicanalista. Qui sembra aleggiare la penna di Manganelli: sarà l’argomento chiesastico, o il tratteggio di una qualche angoscia – anche se non propriamente dirupante-, fatto sta che il linguaggio si punteggia di elenchi baroccheggianti, di vocaboli meno immediati, per i quali la giustapposizione funziona a meraviglia, riproducendo ritmicamente una certa nasale salmodìa da parroco ben temperato.
Al di là della grata capita di udire voci che da subito provocano in me una curiosità eccessiva, malsana, contro cui ho tentato vanamente di oppormi, di combattere. E’ un tono, una modulazione, come se si annunciasse la possibilità di una rivelazione straordinaria, il dono di un fosco segreto che suscita in me una certa impudenza.
Due personaggi, nel primo e nell’ultimo racconto del sestetto, sono – un uomo e una donna – due artisti incompresi, ma nient’affatto simpatici. Non prova, l’autore, a strizzarci l’occhio, non è con loro indulgente, non è romantico. Non sappiamo se si tratta di un pittore e di una poetessa ingiustamente emarginati, se la ribellione, la frustrazione che entrambi covano – che nella donna si esprime in un progressivo ritrarsi dal mondo, dalla parola, in una sorta di lercia catatonia – è motivata dall’incomprensione del genio che rappresentano. Noi li vediamo alle prese con gli altri, simmetricamente o troppo indifferenti, o troppo solleciti nei loro confronti. Posti all’inizio e in coda al gruppo di racconti, condividono un oggetto che scatena la loro furia variamente distruttiva: la televisione, contenitore di troppe immagini e di troppe parole.
Invadente, onnipresente, facile bersaglio polemico, viene da pensare: ma Lupo si gioca l’oggetto trasformandolo in un concentrato, tunc et illic, del malessere dei due personaggi, in un – tutto loro – esasperato polemon, avendoli preventivamente liberati da precisi connotati in cui il lettore possa riconoscersi. E’ questo che li rende pienamente deifuoriusciti: devono risultarci estranei, non dobbiamo solidarizzare con loro. Nessuna concessione sentimentale, nessun “come è vero!“, eppure conveniamo sicuramente che l’atto non ortodosso, o addirittura illecito, a cui qualcuno di questi personaggi si abbandona, sorta di pericoloso riscatto agli occhi di se stessi, è l’unico da compiersi.
In questo senso rischia di esserci simpatico lo sfigatissimo ex-libraio ciccione del raccontoCimento del tempo libero, bizzarro titolo, forse perché la sua forma di protesta è diretta contro un mondo che abbiamo imparato ad odiare ampiamente, o, almeno: una minoranza di noi sicuramente non sopporta il mondo degli imbonitori, quello per cui ilconsumatore (elettore) assomiglia molto ad un bambino di undici anni neanche tanto intelligente:
Dovrete farlo sentire a disagio, il cliente, e anche in colpa, possibilmente: in colpa per essere stato così sbadato, così vicino a fare la figura da cretino, dovrebbe arrossire per essersi separato dal mondo che conta, per aver isolato la famiglia e allontanato i figli dalla modernità e dal benessere [...].
Lo stesso personaggio odioso poco più avanti definisce in questo modo il cliente che “si rifiuta di comunicare“:
Si tratta di persone irresponsabili. Una minoranza. Gente che pone domande prive di risposte possibili. Disadattati. Perché deve esserci sempre una risposta a una domanda plausibile. Se non c’è, vuol dire che la domanda è sbagliata [...] Al cliente ottuso invece, che vorrebbe sapere in cosa consiste il beneficio di questi prodotti, il bravo venditore non è tenuto a rispondere subito: in prima battuta mostrerà un sorriso folgorante che costituirà esso stesso la risposta.
Non è dato sapere a cosa, a chi pensasse Michele Lupo, nel tratteggiare l’istruttore di aspiranti venditori door-to-door, ma il suo allenato senso del grottesco, la conoscenza delle arti carnevalesche (il nostro si è laureato con una tesi dal titolo eloquente: Elementi carnevaleschi nel Decameron), per cui scoronare e denudare il re è un giochetto da ragazzi (lo fa regolarmente qui e qui), mi fanno pensare a qualcosa di reale e quotidianamente sparato a mille in tv.

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