4 mar 2011

su Bruno Arpaia

http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl?Tipo=recensione&Chiave=977

L’Energia Del Vuoto

Guanda


copertina del libro
Lo scrittore come ricercatore, non perché ci spieghi il mondo ma perché prova a interrogarlo per capirne qualcosa: vale una proposizione condivisibile per fare un buon libro? Il romanzo di Bruno Arpaia è ambizioso, corposo, fiducioso nelle sorti della letteratura come lingua e metodo per porsi domande non di poco momento sulla realtà, purché provi a volare alto. 
Nuria, una giornalista-scrittrice spagnola che sembra adombrare un atteggiamento di fondo che è quello dell’autore, va al Cern di Ginevra per lavoro e resta folgorata da un mondo di cui sa niente ma del quale non potrà fare più a meno. Comprende che lì si gioca una partita infinita ma decisiva da cui apprendere prima che una serie di dati oggettivi (in cui si barcamenano gli stessi ricercatori con cui viene a contatto) un imprescindibile schema, un’euristica che ci avverte di rimettere in movimento le cose che sappiamo per scoprire che non le sappiamo affatto. 
Ricordava Primo Levi l’inconsistenza della distinzione fra arte, letteratura, scienza. È a questo disegno che si ispira Arpaia, secondo una linea di congiunzione fra due pose del conoscere che il Novecento migliore aveva più volte pensato di ricucire (pensiamo al grandissimo esempio di Musil). Nei fatti del libro c’è un uomo in fuga - funzionario dell’Onu - tra la Svizzera e Marsiglia (riuscitissime le descrizioni di questo attraversamento che ricorda i paesaggi de La Promessa di Dürrenmatt), una moglie che lavora al Cern ed è sparita, la giornalista che intervista lei e intreccia complicate liaisons con uomini più “poetici” dei cattivi poeti facili facili che infestano prima che la letteratura, il linguaggio e l’immaginario. La donna scopre che l’avventura della fisica è emozionante, perché è la conoscenza stessa del mondo che vi si gioca e perché molte delle nostre certezze lì vengono totalmente rivoltate. E che lì, nel prestigioso laboratorio di Ginevra, si conduca una sfida capitale lo dice il fatto che fra gli stessi studiosi si possa venire ai ferri corti e soprattutto che un gruppo di fondamentalisti islamici cerchi di sabotarne gli esperimenti.
“Un realismo che fosse il risultato di una vera invenzione”: sulla scia di Bacon, la giornalista-scrittrice così ha sempre pensato l’approccio giusto al suo lavoro di narratrice e ora, dopo l’esperienza al Cern, si trova di fronte a un mondo da immaginare da capo. “L’essere si nasconde, rimanda sempre ad altro, ci stupisce (…) Ci sono concetti che bisogna ripensare a fondo”, le viene detto. Il tempo, per esempio, al Cern si domandano se il tempo non si scomponga “in una danza incoerente e disordinata, in ‘molecole’ di tempo”.
Questa a dir poco problematica nozione di tempo della fisica moderna è ben simulata nella struttura narrativa: non v’è linearità nella storia ma un montaggio di frammenti alternati che vanno avanti e indietro secondo un progetto rispettoso evidentemente del paradigma implicito, ma il problema è che i dialoghi e i resoconti scientifici sono troppo lunghi e bisogna oltrepassarne una buona metà perché i personaggi trovino la plasticità e l’autonomia letteraria che ci aspettiamo da un romanzo. Per troppe pagine insomma sembrano solo strumenti, veicoli di trasmissione delle informazioni. Così il thriller epistemologico fatica a svilupparsi. Il rischio di uno sbilanciamento che indebolisce l’evidenza dei personaggi è tipico del romanzo di idee e considerato anche l’apporto di una lingua coesa dall’inizio alla fine, che le loro vicende guadagnino peso specifico solo dopo molte decine di pagine acuisce il rammarico per quello che avrebbe potuto essere un libro imprescindibile.

Michele Lupo

3 mar 2011

Recensione di Simone Ghelli a I fuoriusciti

un grazie di cuore a Simone
http://scrittoriprecari.wordpress.com/2011/03/03/i-fuoriusciti/


I fuoriusciti (Stilo Editrice, 2010)
A un certo punto una mattina non mi sono più alzata dal letto. Non mi vedevo più che mi alzavo, se posso esprimermi così.
In Italia, si sa, i racconti sono un genere piuttosto bistrattato (e aggiungo purtroppo), tanto che se non fosse per internet rimarrebbero pressoché fuori da ogni riflessione letteraria. Nel nostro paese preferiamo puntare invece sui romanzi, preferibilmente se di esordienti, oppure scandalizzarci della poesia che non vende, ma dei racconti importa a pochi. Nessuno si preoccupa di dar loro dignità estetica o risalto mediatico, se non quando si tratta di lanciare qualche antologia tematica in cui inserire testi di autori già noti (se non al pubblico, almeno alla critica).
Eppure, i racconti sono da sempre una palestra di scrittura, forse il luogo più adatto a verificare la genesi di una lingua e di uno stile. Spesso, poi, rappresentano persino una sorta di esercizio spirituale: l’osservazione di una disciplina a cui difficilmente (soprattutto di questi tempi) ci sottomettiamo.
È questo il caso dei racconti di Michele Lupo, inanellati come tanti piccoli romanzi – i più cattivi direbbero romanzi abortiti, e invece io insisto sul fatto che qua siamo davanti alla prova lampante della dignità del genere: essi funzionano benissimo così, perché un’opera si fa abitare indifferentemente dal numero delle pagine che la compongono.
Le storie de I fuoriusciti disegnano infatti un affresco ben preciso, indicato fin dal titolo, per quanto conservino una loro autonomia. I personaggi che entrano in scena (termine appropriato, direi, vista la copertina con uno dei famosi bar di Hopper) sembrano infatti patire, ognuno per sé, di un proprio ingombro personale: fisico o mentale poco importa, purché si sentano sempre fuori luogo. Stanno appunto uscendo di scena, ma sono ancora sotto i riflettori: e nel salto dal palco, in quell’ultimo balzo, mettono l’ultimo residuo di peso che gli rimane – prima d’involarsi, per sempre.
La scrittura di Lupo – asciutta e complessa al tempo stesso – contribuisce a rafforzare nel lettore questa sensazione. Prendiamo l’ultimo racconto, il più bello a mio parere: in Congedo assistiamo all’atto finale di un percorso in cui la staffetta è passata di mano in mano (o per meglio dire di fallimento in fallimento), fino all’esaurimento di ogni possibilità: un esaurimento che passa per il rifiuto della comunicazione – la protagonista che getta il telefono, dentro il quale la voce di uno spasimante continua a insistere – e di conseguenza per una scrittura che sembra perdere ogni velleità descrittiva per farsi a tratti puro pensiero: un monologo interiore disturbato da stralci di conversazioni.
Alla fine, rimane l’autismo del soggetto, il suo richiudersi nella scrittura – gli ultimi versi di una poesia della protagonista (Oh, anche questa notte è colma d’echi la terra, e di grida).
Forse, allora, non è proprio un caso se il primo racconto inizia con il riferimento a un televisore (Tornando a casa, ci pensò un po’ su: si sarebbe seccato anche lui se qualcuno gli avesse spento il televisore sotto gli occhi), mentre l’ultimo mette in scena la distruzione di un suo omologo: una via d’uscita luddista che rende giustizia all’arte del racconto.




1 mar 2011

del profondismo


Maria Pia Veladiano

La vita accanto

Stile Libero Einaudi

Dal Paradiso
copertina del libro
Che ne dite di questo incipit: Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia?
Buono no?
Continuereste a leggere? Io sì – confesso che l’ho fatto. Sono andato avanti, a leggere questa storietta di un’infelice ragazza, brutta fino alla ripugnanza e perciò guarda caso sofferente, da subito con minor entusiasmo, abbastanza presto deprimendomi, e non dico quando ho smesso. La prosa stucchevole, le frasi cervellotiche tipiche di chi vuol fare “letteratura” hanno cominciato presto a farla da padrone: a p. 11, lamentandosi di non poter uscire di casa, la sventurata, narratrice in prima persona, ricorda la triste condizione comeun tabù sul quale stava o cadeva quel residuo di vita che ancora la inabitava”. (???)
La sfigata è nata oltretutto in una famiglia di persone bellissime – il superlativo abbonda già nelle prime pagine (se è brutta come lei stessa dice, a esser meglio e belli e poi bellissimi non dev’essere una grande impresa). A latere del libro, nelle interviste, Veladiano ci ammonisce: questo è un libro sul dolore.
La famiglia difatti ci resta male; da parte di madre pende una tara ricorrente, ogni tanto capita qualcosa di sbagliato, e alla narratrice non solo capita di esser brutta ma anche di non essere amata – la madre non lo dice ma la ficcherebbe volentieri in un cassonetto dell’immondizia. Il padre sarebbe un po’ meno peggio ma non ce la fa, inetto e debole come tutti i maschi.
Fortuna che la ragazza ha un talento, quello della musica, e suona bene il pianoforte. Questo potrebbe salvarla, forse; intanto c’è da soffrire. A un certo punto sente i genitori che discutono in un’altra stanza, di lei ovvio, di cosa farne, e scrive a proposito del padre e delle sue incerte intenzioni sulla moglie: Sento che la scuote. Forse l’ha presa per le spalle. Non c’è poesia.
Non c’è poesia. Sic. Domanda: chi è che parla? la povera disgraziata (povera poi, c’è anche in filigrana col passare delle pagine sempre più visibile una prospettiva da provvida sventura), o attraverso lei anche l’autrice? Perché in questo mercato editoriale “la poesia” sembra una merce un po’ più sofisticata delle altre ma non abbastanza da risultare introvabile nei megastore dei centri commerciali. I tuoi occhi di mare sono sempre lontani dice ancora il padre. Bon, è un attimo: eccola, la poesia.
La critica si compiace di un libro che denuncia il regime del bello (o della cosmesi?) – la bruttezza abnorme determinando una condizione di emarginazione (prigionia, sostiene l’autrice con originalità). Il lamento sulla mancanza d’amore che ne deriva insomma, visto che il clima è quello che è, sembra sconvolgere i recensori. Aspettiamo rivelazioni stupefacenti su Bruno Vespa e Minchiolini, sì da strappare anche noi un contratto a via Biancamano. Vale la pena ricordare che ancor prima si sono commossi i giurati del Premio Calvino 2010 – vinto dalla Veladiano con l’applauso scrosciante, fra gli altri, di Valeria Parrella (personalmente questo motivo sarebbe stato bastevole per consigliarmi prudenza, ma comunque).
“Stile Libero” continua a esserlo senza freni, tenta un approccio al successo editoriale attraverso un’operazione alla Giordano: libretto melenso ma crudelino, sciatto ma ricercato, qualche frase a effetto e sostantivi astratti a go go. Il proposito letterario che presiede a opere come queste potremmo chiamarlo profondismo. Poesia a tutto spiano, dolore, riscatto forse sì forse no, spiritualismo velato, frasi brevi che vorrebbero imitare Ungaretti e piacciono molto alle signore mie de sinistra (moderata) - a quelle de destra piacciono altre cose. Profondismo.


Michele Lupo



28 feb 2011

Il porcello, l'otre di lardo e lo psicopatico


“Nelle scuole di stato gli insegnanti inculcano idee diverse da quelle che vengono trasmesse nelle famiglie”: ha detto così. Non ero a conoscenza del fatto che nelle famiglie italiane circolassero delle idee, ma registro che l’uscita del porcello segue quella “Dal Verme” in cui il suino princeps, l’otre di lardo, sbrodolò contro la scuola pubblica e i suoi insegnanti. Disse che inculcano l’odio.
In tv ora annunciano Sgarbi, prima serata: dirà che gli insegnanti inducono il sonno, l’acquiescenza, il rigor mortis.
Segue sparatoria.
Poi riforma.
Della riforma.
Poi zero.

23 feb 2011

L'invenzione del romanzo


di Michele Lupo
La lettura ad alta voce oggi è pratica diffusa solo nei luoghi deputati a readingsletterari moltiplicati sia dalla legittima necessità per molti scrittori di farsi spazio nell’oceano dell’offerta editoriale che da un certo compiacimento modaiolo e spettacolare.
L’invenzione del romanzo di Rosamaria Loretelli ricostruisce una storia della lettura dalla Grecia antica al Settecento, il secolo maggiormente implicato nelle argomentazioni della studiosa perché è allora che alcune trasformazioni diventano significative e il romanzo si afferma come genere letterario – a prescindere dagli episodi pur giganteschi del secolo precedente. In secondo luogo, e perciò, il volume è anche una storia delle forme narrative dall’epica classica in poi.
Nel Settecento dunque la lettura diventa silenziosa e interiore. Assistiamo a uno spostamento di focalizzazione dalla voce e dai gesti allo sguardo. Si afferma il romanzo e tutto comincia a gravare sulla parola in sé, più che sulla sua esattezza come avrebbe detto più tardi l’imprescindibile Flaubert, sulla tessitura di un organismo complesso fatto di rimandi in avanti e all’indietro, di tracce proteiformi e piste secondarie di personaggi luoghi trame che l’oggetto romanzo garantisce in virtù di una costruzione materiale precipua – una segnaletica monumentale e fittissima che il romanziere trama e disperde attraverso l’opera a piacimento e in cui, come nella vita reale, i fili narrativi si accumulano dentro lo stringente accadere del tempo, ben al di là insomma del tempo astratto e mitico in cui ancora vive il capolavoro di Cervantes, con il quale pure molti fanno nascere il romanzo moderno.
Pertanto, muta lo spazio temporale attraverso il quale percepiamo il contenuto del testo assieme al mutare delle posture corporali. Ed è piuttosto con Fielding per la Loretelli che si produce lo scarto davvero decisivo; lo scrittore inglese all’inizio del Tom Jones dichiara “apertis verbis” che si augura un lettore “bramoso di leggere all’infinito”. La storia assume un ruolo centrale e con essa il tempo, l’orizzonte d’attesa che il romanzo può soddisfare in modi più immediati.
Lo scrittore di romanzi approfitta della lettura silenziosa e individuale, del supporto libro (che qualcuno non a caso ha definito l’oggetto tecnologico per eccellenza –kindle permettendo) e edifica un’architettura complessa in cui ci si può muovere a piacimento – la metafora dell’edificio è spesa da Samuel Johnson a Henry James. Egli stesso rilegge e corregge. Il romanzo crea una dinamica di attese e rinvii in cui lo scrittore mistagogo porta il lettore dove vuole.
Non solo. La nascita del romanzo inglese moderno comporta un cambiamento anche nel lettore; la lettura silenziosa beneficia dei progressi della tecnica (diversità e maneggevolezza del formato, chiarezza dei caratteri, introduzione di nuovi segni grafici ecc.), propizi alla concentrazione. È per calamitare l’attenzione di questi nuovi lettori che i teorici e romanzieri d’oltremanica saranno costretti ad approntare una nuova estetica del racconto.
Peraltro, come ricorda l’autrice in un’intervista, “non può essere uguale l’effetto di un racconto letto da un rotolo, come accadeva nell’antichità classica, o di una lettura in piedi da un volumone incatenato a un leggio, come era nel Medioevo, o di un abbandono al godimento di un volumetto in copertina morbida, scorso con gli occhi mentre si sta stesi su un letto o sdraiati su una spiaggia“. Nel Settecento comparvero le poltrone, per leggere semisdraiati, le donne magari discinte. Ci fu chi si allarmò, allora, per le conseguenze “morali”.
La lettura silenziosa gode di un maggiore abbandono, certo – trovo però meno convincente l’idea che essa rifletta una condizione di passività. Rimanderei al gran libro di Neil Postman Divertirsi da morire perché è al mondo video che possono agevolmente rimandare certe considerazioni che l’autrice fa a proposito del leggere come atto “naturale e meccanico” (con le drammatiche conseguenze, chezPostman, che registriamo qui e ora).
Detto ciò, questo saggio di marcata robustezza teorica ci insegna a vedere nel leggere un gesto materiale, mostra come le posture corporali modifichino la percezione della storia: viviamo come leggiamo. Che “i testi non sono oggetti astratti (…) bensì il prodotto di menti e corpi in situazione”. Perciò, la differenza ha da fare con l’esperienza stessa non del leggere, ma del vivere (per chi se lo fosse dimenticato in questi strani tempi smemorati, viviamo solo nella storia, appunto).


20 feb 2011

Cosimo Argentina - Vicolo dell'acciaio

un po' deludente, alla fin fine

Vicolo dell’acciaio

Fandango


copertina del libro
Cosimo Argentina è un bravo scrittore, nonché insegnante di diritto (non so se ancora precario). Si è costruito una sua meritevole seppure non clamorosa carriera letteraria con pazienza e determinazione, a piccoli passi, guadagnandosi l’apprezzamento di non pochi adetti ai lavori.
Di solito, nei suoi racconti sfodera un umorismo amarognolo, a tratti sulfureo, una lingua crocchiante, tutta fisica, attenta ai valori fonici in un’accezione certo non poeticistica ma medio-bassa, in funzione di una rappresentazione ravvicinata e sbilenca delle cose. Difatti par di sentirli i rumori di questo condominio-casermone del vicolo dell’acciaio, in una Taranto poco meridiana, incupita dall’Ilva, il più grande impianto siderurgico d’Europa. Presenza monumentale quanto nefasta, chi più chi meno ne sembrano tutti segnati, la vita viene strappata a morsi, non senza rabbia e dolore da figure disperatamente alla ricerca di una via di fuga. 
Siamo dentro a esempi di vita che non sono intimistici perché non possono permetterselo: il lavoro, le condizioni materiali battono costantemente sulla psiche e sui corpi fuligginosi di gente che prova a vivere, sfottere, amare ma con un senso di disfatta addosso difficile da scrollare. Del resto, dice il narratore, abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa…. Non si sfugge insomma a un mondo “d’acciaio lavorato a freddo e a caldo (…) fatto di laminatoi, cokerie, bramma, tubi” etc.
Centrale la figura del Generale, il padre del giovane narratore, emerge dalle vicende con i suoi tratti severi, scorbutici, caratterizzazione esemplare di un uomo ruvido, che non ama le chiacchiere e sta ai fatti di una realtà durissima: lì si muore e ci si ammala con una frequenza che non sembra quella del mondo Occidentale. Il lutto segnato dall’acciaio, prima o poi è destinato a far capolino nelle vite di ogni famiglia.
Fin qui tutto bene - il romanzo di Argentina però non è privo di limiti abbastanza precisi; non tanto la mancanza di un plot, cui l’autore sembra francamente disinteressato, quanto il fatto che se la modalità narrativa privilegiata pare essere quella delle sit-com con le loro coartate unità di luogo, divertenti fino a quando non diventano asfittiche, anche la definizione dei personaggi e la lingua usata per raccontarli rischiano di non offrire molte sorprese se non nell’invenzione un po’ di maniera, nella battuta dialettale, nell’ammiccamento vezzoso di una spavalderia tragicomica ripetitiva. Il giovane narratore infatti attraversa il quartiere, il condominio, gli appartamenti e le singole stanze da una pagina all’altra dando l’impressione di aver visto già tutto, di sapere già tutto – almeno, questo arriva al lettore. Del resto, è il risvolto di copertina a dirlo parlando di personaggi “pittoreschi”. Ecco, il limite del romanzo di Argentina a mio avviso è questo: tradisce troppa smania di far ridere e commuovere tipizzando sia le figure sulla scena che la scena della lingua.



18 feb 2011

Luigi De Pascalis - La pazzia di DIo


"La pazzia di Dio": l'Abruzzo di un secolo fa tra guerra e miseria


La pazzia di Dio è una saga ambientata in gran parte nell’Abruzzo a cavallo fra Otto e Novecento e fa parte di una trilogia dedicata alla famiglia Sarra, schiatta di proprietari terrieri. Nel libro assistiamo alla storia di Andrea, prima bambino, poi adolescente e infine – quando un secolo fa le età della vita conoscevano rispetto a oggi un’accelerazione non troppo divertente - ragazzo maturo abbastanza da ritrovarsi nel carnaio infernale e senza senso della prima guerra mondiale. Le pagine migliori, non prive di momenti emozionanti, sono proprio quelle che arrivano assieme al conflitto. Fino a quel momento, il ragazzo “d’inverno sopportava la vita e d’estate gli pareva bella”. C’era poi stato il “Collegio degli Scarrafoni”, a Napoli, e lì aveva cominciato a capire che il mondo era un posto più infido di quello che pensava. La guerra fa il resto. La pazzia di Dio sottesa a quella degli uomini si prodiga per il solito servizio ai pochi delinquenti di Stato – inutile ricordare ignobili figure come il generale Cadorna, cui pure non hanno mancato in questo tristo paese di dedicare piazze e monumenti - esaltati più o meno interessati che invocano la guerra “come igiene del mondo”. 



La delusione successiva al conflitto, per gli ingenui mandati a morire, sarà cocente. Il protagonista è un po’ più sveglio, del resto “la dichiarazione di guerra è uno specchio magico, ognuno ci vede dentro quello che vuole”, lo avvertono una volta lì. E non ci mette molto a comprendere a cosa serva; qualcuno sibila: “I soldati vanno al macello per spirito di branco. Solo che i generali preferiscono chiamarlo spirito di corpo”. La guerra, viatico ingannevole di svolte capitali, promessa non mantenuta di nuove terre, via per scongiurare quella per molti ben più spaventosa di un’indesiderata emigrazione, più pitocca che epica, il terrore dell’Oceano da attraversare per raggiungere gli Stati Uniti o l’Argentina, la guerra scellerata degli straccioni impreparati e malissimo equipaggiati insomma, costituisce solo un’amara iniziazione alla vita, che non termina nelle turpi trincee, ma con il ritorno a casa, nell’immaginario paesino abruzzese nella Valle del Sangro. Niente è come prima agli occhi del reduce, se non l’apparente ripetersi del moto lento delle montagne abruzzesi: mentre l’epidemia spagnola enfatizza lo sfacelo, l’elegia e il candore lasciano il posto all’amarezza di scoprire che quel mondo, come era stato vagheggiato, forse non era mai esistito. 



La narrazione soggiace a uno stile limpido che simula a tratti l’oralità e addolcisce anche la ruvida asprezza delle rocce abruzzesi; si tiene dentro un tono costantemente alieno da spigoli o effrazioni, in una sorta di verismo favolistico, domesticato però solo in apparenza – siamo dalle parti del romanzo storico, anche sensibile a richiami mitologici,  che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già sappiamo. La lettura è gradevole sebbene percorra disegni narrativi tanto sapienti quanto convenzionali, senza schivare qualche ingenuità (il bambino che manca l’iniziazione erotica assistendo a un amplesso dal classico pertugio: il narratore scrive che il membro “era duro come un pezzo di legno”, laddove lui lo vede soltanto). Non propone attraverso una vicenda esemplare (la tipizzazione di una famiglia e del suo contado) una rilettura della storia sparandole grosse, né difetta nella ricostruzioned’antan. Un buon libro però con un netto sapore di déjà vu.
Michele Lupo


Luigi De Pascalis

La pazzia di Dio

La Lepre Edizioni


17 feb 2011

paradiso 17 febbraio

http://www.paradisodegliorchi.com/cgi-bin/pagina.pl

di mio: la presunta ironia di Dajefoco, cortigiano del suino più rumoroso d'Italia, a sua volta cortigiano del porcello di Arcore (ah, i cortigiani de 'na vorta!)

una lettura dell'ultimo romanzo di Cosimo Argentina (che sembra essersi fermato dove stava)

16 feb 2011

Una lettura de I fuoriusciti - Ivano Mugnaini

Un grazie a Ivano - DEDALUS


I FUORIUSCITI di Michele Lupo


È un libro forte, I fuoriusciti, schietto, capace di abbinare l'impatto  con il reale alla riflessione, seppure dentro le cose, nella corsa del tempo, con lo stesso passo e lo stesso sangue. Il sottotitolo, "Storie di fughe, ritorni e trascurabili vendette", è, allo stesso tempo, consono e (volutamente) spiazzante. Perché le fughe ci sono, ma sono parziali, imperfette, i ritorni auspicati, certo, ma beffardamente ciclici e claustrofobici, percorsi di umanissimi criceti in gabbie autoprodotte e autonomamente serrate buttando via la chiave. Ma le vendette, in questo contesto, non possono essere "trascurabili", se non nell'accezione ironica, abilmente sarcastica, proposta da Michele Lupo. Le vendette non sono trascurabili, sono definitive, vitali, oppure mortali, che poi, nel contesto specifico del libro, non sono concetti e realtà troppo dissimili. Le vendette pongono fine a storie impossibili, eppure vere, verosimili, giocate sul confine incerto tra simbolo e corporeità, metafora e materia. Sei racconti di varia lunghezza, quelli de I fuorisciti, libro edito da Stilo Editrice nel 2010 ma contenente racconti che l'autore aveva già pubblicato nel corso degli anni in riviste ed in altri volumi. Un percorso lungo e coerente, giocato sempre a viso aperto, in uno scontro con la vita armi alla mano, in cui lo scrittore non possiede né un fucile né una pistola, ma non è uomo morto in partenza: non lo è se può fuggire, scappare fuori, restando però sempre all'interno, dentro l'assurdo e la follia, la fame e la sete di vino e di corpi, la foga di cercare ancora, sperando di non trovare mai una chiave unica, univoca, per poter cercare ancora, in quel tragitto disincantato ma anche intensamente e fascinosamente lacerante, mai sconfitto, in fondo, che è la vita, la scrittura. Se lo sguardo è sincero, come nel caso di questo libro, e l'ironia è possente, capace di dare il coraggio di guardare dentro le cose, vedendo anche noi stessi, per un istante, senza compiacimento, e senza rabbrividire. Trovando la giusta dimensione allo specchio troppo nitido, arrivando perfino ad un sorriso, amaro, crudele a tratti, ma autentico, genuino.



Non potendo partecipare al Concorso "La vita in prosa" con testi editi, Michele Lupo ha inviato il racconto "Le lenzuola dell'architetto", coerente con i temi e lo stile de I fuoriusciti. Il racconto è stato prescelto nella fase preliminare del Concorso, e, seppure decisamente lungo, lo propongo qui di seguito ai lettori nella versione integrale.
I.M.





14 feb 2011

Come si ascolta il jazz - pdo


Ben Ratliff

Come si ascolta il jazz (Conversazioni con Wayne Shorter – Pat Metheny – Sonny Rollins…)

minimum fax


copertina del libro
Ben Ratliff, critico del New Yor Times, già biografo di John Coltrane, ha raccolto in questo libro quindici interviste-ritratti di jazzisti di fama più o meno storica. Si tratta in realtà di conversazioni – lo dice il sottotitolo – con pazienza concertate e “costruite” dall’autore assieme a musicisti del calibro di Sonny Rollins, Joshua Redman, Branford Marsalis e altri. Ascoltando dischi propri e registrazioni altrui in situazioni all’apparenza informali, a volte persino domestiche, con tanto di rumori di vita quotidiana e familiare, i musicisti presenti in questo libro si sono lasciati andare evitando l’atteggiamento difensivo che spesso (a mio avviso non sempre a torto) assumono rispetto alle domande della critica, segnate come sono da un linguaggio convenzionale o da un canone storiografico che possono allontanare il senso più profondo dell’esperienza estetica. L’altro rischio delle interviste ai musicisti, ricorda Ratliff, è quello di approfittarne per operazioni di marketing. Il critico americano è stato bravo nel favorire un’aria friendly all’origine della sincerità dimostrata dagli intervistati, la qual cosa fa guadagnare a tutta l’operazione un’intelligenza della musica (non solo jazz) molto interessante per qualsiasi appassionato. 
Ratliff nell’introduzione al volume dichiara i propri debiti con Leonard Feather, che inaugurò il blindfold test (test a occhi bendati), metodo nel quale si chiedeva all’intervistato di riconoscere l’autore della musica che ascoltavano, il che consentiva di tirar fuori un giudizio spassionato, meno segnato dal pregiudizio o dall’insofferenza personale. 
Così qui, succede che ognuno degli intervistati consegni senza volerlo una definizione della propria musica, o di cosa sia il jazz, parlando di altri musicisti piuttosto che di sé, sottolineando liberamente passaggi, modalità espressive, tecniche altrui. 
Prendiamo degli esempi; Sonny Rollins, incontrato in un momento non felicissimo, dopo la morte della moglie. All’intervistatore che gli chiede un giudizio su un suo concerto, il grande improvvisatore di sax tenore manifesta un’acuta ritrosia nel rispondere: “Io vedo le cose dall’interno”, dice infine - che a me pare una definizione limpidissima di poetica: perché fa a meno di gettare sull’opera la finzione di secondo grado che le viene dall’ideologia. In altre parole, una risposta onesta che rifiuta di archiviare la musica secondo tassonomie critiche che pretendono di collocarla (sia pure scivolosa com’è nel caso dell’improvvisazione) in un “contesto” di misure oggettive (vale per la musica qui un principio ben applicabile alla letteratura: oggi nella nostra lingua qualcuno si contende un presunto primato di necessità attribuendosi il valore di una nuova epica o, all’opposto, rimasticando cascami neoneoavanguardisti che avrebbero bisogno di dosi farmacologiche più massicce e possibilmente non omeopatiche). 
Ratliff ci mostra lo stesso Rollins rilassato che canticchia Fats Waller e si lascia sfuggire che una sua canzone “evoca tutta la scena di Harlem”, per poi dire a proposito di Charlie Parker che la sua “concezione ritmica era veramente una cosa dell’altro mondo”. Questo genere di conversazione permettendo ai musicisti di uscire dalle secche della critica, lascia emergere una serie di concezioni più interne al sentire dell’artista. Impressiona per esempio come spesso ritorni il concetto di storia, del singolo brano costruito come un racconto - attitudine che sarebbe nella musica di Louis Armstrong secondo Ornette Coleman, o in Lester Young ancora secondo Rollins. Coleman offre molte suggestioni culturali (non a caso ha ispirato un personaggio di Thomas Pynchon in V), laddove in Pat Metheny troviamo il concetto di collante, per cui il senso della musica, di un “brano” è visto nella sua capacità di costruire una sintassi, ossia, ancora una volta, una storia. 
E il racconto torna in fondo nella stessa scrittura di questo libro. Ratliffe è abile infatti nel passare dalla descrizione della scena in cui si svolge la conversazione, comprensiva spesso di un ritratto fisico, di una segnaletica della gestualità, del portamento, del modo di vestire, all’inserto biografico riassuntivo di una carriera - o ancora all’intervallo aneddotico dislocato attraverso veri e propri artifizi narrativi in altri contesti temporali: e tutto questo fa assomigliare il libro a una raccolta di short stories.
Completa il volume – fra gli altri anche Paul Motian, Bebo Valdés, Maria Schneider… - un’appendice di ascolti consigliati.

Michele Lupo






13 feb 2011

Una sobria Norimberga, noo?



Ne sentivamo la mancanza. Poi, in questo paese che a volte ti verrebbe di sognare luterano, severo, bergmaniano, finalmente è arrivata: lei, la salvatrice, l’emancipatrice, la vera femmina che non muore mai, che non è quella che scende in piazza (ma le piazze nei borghi italiani non stavano prevalentemente in alto, appena sotto il castello?), ma la femmina archetipica, prima ancora che mignotta: l’ironia, l’ironia italiana sparsa ovunque come un prezzemolo da supermercato, buona a giustificare qualsiasi porcata o pochezza (perlopiù coniugate), a salvarsi il culo qualora cambiasse l’aria, si sa mai, a non farsi beccare in castagna quando la proposizione è lasca, fessa, improbabile: spesso e volentieri.
È arrivata la sera del 12 febbraio, la sera del teatro “Dal Verme” (ironico, anzi no), quello dell’enorme mucchio di pus che dirige “Il Foglio” – giornale pagato dai contribuenti, da te lettore (ma non lamentartene, cerca di essere ironico) – circondato da un certo Camillo Tristo, chierico rimasto traumatizzato da piccolo appena si è visto allo specchio, convinto assertore come il suo capo(doglio) purulento della probità del magistero del papa-sorcio (un tedesco non avvezzo all’ironia se non involontaria, ma di stanza in Italia da tanto di quel tempo che all’occorrenza – nel caso per es. improbabile che rischiasse di vedere la magistratura intromettersi nelle faccende della Banca Vaticana – pronto a una svolta anche lui), salvo rimestare le carte in corso d’opera perché se il prezzo da pagare alla coerenza protestante è la disfatta, sempre meglio darci dentro di cazzo e di bordelli non essendo stato eletto casualmente a sacramento l’esercizio della confessione – dalle parti loro, intendo, di Santa Romana Chiesa della domenica, e gli altri giorni chi s’è visto s’è visto.
Dopo la performance nel ventre del “Verme” insomma (teatro il cui nome non era tutto un programma come pensate voi che difatti non avete colto l’ironia), bello cucco e avvinazzato, s’è presentato in televisione (la7) dal duo Costamagna-Telese, giulivi e allegretti pure loro – siamo italiani – un altro dei paladini del mucchio di pus di cui sopra (bisogna dire, pura letteratura vivente, quest’ultimo: magnifico e irripetibile esemplare di correlativo oggettivo, una composta coprostatica riassunta  - si fa per dire - in una vis fescennina lì lì per sbrogliarsi in diarrea). Il paladino, certo Dajefoco, si sperticava in applausi, al “Verme”, dava di gomito al coprostatico spronandolo a una performance spettacolare, eroica; ignaro, il siciliano piromane, o forse incosciente, della sciolta in arrivo (una lezione su Kant a Umberto Eco, mica cazzi); più tardi, brillo, è arrivato in tv, s’è assiso, ha sorriso, s’è passato una mano sui capelli come a sistemarsi un riporto che fortuna sua non aveva, e l’ha detta. L’ha detta la parola magica, la parola passe-partout più sputtanata d’Italia dagli anni Ottanta a oggi dopo “libertà”: ironia. Ha sfoggiato un largo e furbesco sorriso e ha ammonito la Costamagna – un biondo traliccio elettrico imperturbabile -  che come al solito non si capiva il carattere “ironico” della performance. Ce l’aveva, Dajefoo, senza dirlo, con un certo genere di coglioni, quelli così apostrofati dal porcello di Arcore, quelli che avevano pensato di non votarlo, quelli che non avevano capito che il duce d’antan non faceva male a nessuno, avendo escogitato il “confino” non come una punizione bensì come una vacanza forzata per “rinfrescarsi le idee” (peraltro, ad alcuni toccarono in sorte paesini dal clima salubre, con vedute niente male, non come gli alberghi della costa abruzzese, notoriamente non il meglio della regione, cui il porcello era stato costretto dalla sfiga che lo ha attanagliato in tutti questi anni, a parcheggiare i terremotati aquilani).
Insomma Dajefoco, autore pare di romanzi pupari, rideva; rideva non dello sconcerto del traliccio – che non v’era – ma di quello immaginabile nella serie dei coglioni di là dallo schermo; e anche prima, mentre il liquame intestinale del capo(doglio) sommergeva il “Verme”, se la ridevano anche il cyborg Santanché, e il paleofascista ministro della Difesa, che s’è interrotto solo un attimo per pigliare a calci un altro coglione che si era permesso di fargli due domande sull’affaire Ruby, la zoccola del Rif, montagne care ai freak de ‘na vorta (le canne difatti fanno ridere). Il coglione era un giornalista, d’accordo, ma poco ironico. Io l’ho ascoltato Dajefoco, e debbo dire mi sono divertito; insomma mi sono istruito, ho imparato, sono persino arrivato a una conclusione. Che per gli altri, per i giornalisti che in questi venti anni di merda si sono astenuti dal fare domande, e che hanno fatto pure una redditizia carriera, mi piacerebbe immaginare una sobria Norimberga. Vorrei sentire quel mantra così poco liberale, “ho obbedito agli ordini”. Sarebbe spiritoso, quasi ironico. Ironicamente, la sentenza sarebbe forfettaria: dieci anni per uno a pulire i cessi, a scuola. La mascotte di Tremonti, la signora diventata avvocato in Calabria e assurta a (ironico) capo dell’Istruzione, sarebbe contenta per il risparmio. E dentro, nella composta aula di cui sopra, porterei anche il “bivacco di manipoli” e mignotte che in questi anni ha legiferato per noi.
Naturalmente, sono ironico.








 
Una speranza non la si nega a nessuno; ne ho una tutta per me. Mi auguro che non venga in mente a nessuno, fra venti o quarant'anni, di proporci versioni aggiornate della "Grande Storia", quella che 
abbiamo visto per anni su rai 3Specie q
uel genere di puntate sui gerarchi fascisti o gli uomini del  fuhrer



12 feb 2011

da L'onda sulla pellicola

Nell’ufficio di Malerba in quel periodo di campagna elettorale c’era un via vai di giacche e cravatte coi fermagli d’oro. Molte, e riconoscibilissime, le vecchie teste di cazzo democristiane e socialiste che nel ‘94 avevano infilato il preservativo, si erano chiamate forzaitalia e l’avevano allegramente messo in culo all’altra metà del paese.







11 feb 2011

Philippe Djian - Incidenze

dal paradiso


Philippe Djian

Incidenze

Voland


copertina del libro
Protagonista di questo romanzo è una carissima carogna, un professore universitario quasi sessantenne, scrittore mancato, che passa da una studentessa all’altra, che le donne le scoperebbe anche da morte, cosa che quasi gli succede con una ragazza che dopo aver passato la notte con lui gli riappare al mattino stecchita chissà come chissà perché: ovvio e primo turbamento a parte, ci fa un pensierino su, Marc, poi lascia perdere e le chiude delicatamente le cosce – più che altro per sbrigarsi a occultare il corpo, della cui morte non ha colpa. Ma la colpa lui se la porta dentro a prescindere perché il vizietto nel suo ambiente non è gradito.
Senti echi di certo cinema francese in questo romanzo di Philippe Djian che pare scorrere attraverso il ripetersi quotidiano di una vita eccentrica ma a suo modo regolare: insegnamento – sesso con una studentessa - ritorno a casa dove il protagonista vive con una sorella di cui con l’andare avanti il lettore intuisce la verità inquietante. Le descrizioni sono secche, essenziali, precise, gli oggetti sembrano letti e ripassati attraverso successivi spostamenti dello sguardo in soggettiva e un’attenzione prensile; il paesaggio si impone non sai se come un’eco impressionista sulle vicende del protagonista o inventariato seguendo la lezione dell’école du regard. A tratti però le descrizioni si protraggono, come le digressioni, e marcano l’abulia del protagonista nella serie di interni ed esterni che rischiano di assediarlo - in certi momenti vorresti che la penna fosse in mano a Martin Amis. Ma come in quel cinema, un momento prima che decidi di averne abbastanza, ecco lo scatto: narrativo e stilistico insieme.
Il tran tran viene stravolto dall’incontro dell’uomo con la madre della ragazza morta: non per chissà quale scompiglio interiore dovuto al caso specifico, ma perché la donna, evidentemente di età di ben superiore a quella delle pischelle che il tipo suole portarsi a letto, dispone di qualità che Marc non aveva mai trovato sino a quel momento.
È solo allora che accetta finalmente l’idea di non avere nessun talento come scrittore, e la rivelazione gli giova, si sente salvo, si accontenta di essere un bravo insegnante, di portare qualche studente “al livello medio della produzione attuale (…)” visto che “le regole sono abbastanza facili, i primi posti non sono forse occupati da pessimi individui, più lesti di una scimmia?”)
Mentre qualche sospetto sulla morte della ragazza comincia a farsi largo intorno a lui, il suo capo – l’accademico imbecille e invidioso che non capisce niente di letteratura e (perciò?) gode di pieni poteri – minaccia di cacciarlo per le imbarazzanti avventure di letto e ne approfitta per corteggiare la sorella (“ci sarebbe voluta una legge contro sorelle di quel genere, sempre incredibilmente in grado di stanare quello con più rogna del circondario, il fidanzato più ignobile nel giro di cento leghe, lo stronzo assoluto destinato a rovinarti la vita per secoli”); ma il ricatto produrrà un esito tragico, scoprendo il lettore che in realtà la convivenza del protagonista con la sorella non si fa mancare i piaceri umbratili e cupi del sesso. Tremendo finale che non sveliamo. Uno scrittore di talento, Djian.


Michele Lupo
GustosoGustoso

I fuoriusciti

http://www.stiloeditrice.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id=330:lupo-michele-i-fuoriusciti&catid=53:nuovelettere-&Itemid=60

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