10 mar 2020
23 mar 2019
9 feb 2016
Intervista di Alessandra Stoppini su sololibri.net
http://www.sololibri.net/Io-sono-la-montagna-Intervista-Lupo.html
- “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Giovanni. III, 19. Michele, per quale motivo ha posto come esergo del testo una citazione del Vangelo di Giovanni che apre anche la lirica La ginestra di Giacomo Leopardi?
Il protagonista negli anni del carcere legge convulsamente la Bibbia. Più che altro, la sua ossessione è Giobbe. Tende a identificarsi con la sua vicenda, si sente in debito con Dio ma non sappiamo quanto a ragione. Così, la citazione di Giovanni diventa un controcanto dell’autore, a indirizzare la lettura in un’altra, possibile direzione. Sinceramente, tutto questo lo dico a posteriori. Al momento fu una scelta istintiva - e Leopardi non c’entra.
25 set 2015
recensione su dailystorm di Giulia Di Clemente
Io sono la Montagna è il nuovo libro di Michele Lupo, italiano nato in Argentina. Autore di vari racconti e reportage ha pubblicato, fra gli altri, il romanzo L’Onda sulla Pellicola (Besa edizioni), l’ebook Il ritmo dell’architetto e una raccolta di racconti intitolata I fuoriusciti (Stilo edizioni). Con Epika edizioni Lupo firma un racconto brillante e vivo, a metà fra un flusso di pensieri libero e una missiva schizofrenica.
(...) stile vibrante che tiene sempre altissimo il ritmo della lettura e l’attenzione inchiodata alle pagine, Io sono la Montagna (...)
Michele Lupo ha meglio della creta fra le mani mentre modella, salda e muove fili invisibili che fanno parlare e vivere la sua Montagna (...)
Potentissimo il monologo che mette in luce il carattere crudo, fiero e superbo del nostro protagonista senza nome che non ha timore di chiamare in causa neppure Dio: “Dio non ce la fa a controllare tutto. Non l’aveva prevista così difficile, il Signore. È per questo che toppa il bersaglio a volte. Se quelli riuscivano a trasformare la paura fino al punto di stare quattro giorni senza mangiare, Dio avrebbe dovuto rispettarli. Dio si sopravvaluta. Fa errori da pivello” (...)
La scrittura è flusso, moto oscillatorio e ondulatorio insieme. I ricordi si rincorrono separandosi per poi ritrovarsi e se hai la pazienza di seguirli bene, altrimenti non fa niente. Farà inorridire persino ogni tanto, facendo storcere la bocca in una smorfia innaturale che non dona affatto. Però il nostro protagonista è la Montagna e la montagna non si è mai travestita da collina per rendersi più amabile. Se la superbia la rende inavvicinabile la schiettezza la rende non condannabile (“mettiti una gonna decente qualche volta, vai dal parrucchiere, allunga un filino di trucco. Mo’ va bene, dio è dappertutto ma perché ripetermelo ogni momento? Ti potrei rispondere che certe volte non trova la strada, ok? Che magari al sud mancano le infrastrutture e questo è un fatto. E certe cose alla lunga stuccano”).
Da sottolineare, ancora una volta, la bruciante attualità del racconto. La simmetria con il vissuto di questi interminabili mesi di esodi è naturale prima ancora che semplice; poche righe bastano, da sole, a spiegare il perché: “Propaganda della paura. Un ministro disse bisogna sparare a vista, quando sono ancora in mare. Il Sony si mangiava tutto il soggiorno. Io cerco di non far rumore con il brodino e questo dice che bisogna sparare a vista. È giusto, aggiunge mio figlio. Che cosa vogliono questi, dove pensano di andare.Vogliono allontanare la morte, dico io.”
Se realtà e finzione non son diventati anch’essi due termini opinabili Io sono la Montagnaè difficilmente definibile come un racconto di fantasia.
3 set 2015
http://amicadeilibri.blogspot.it/2015/09/io-sono-la-montagna-di-michele-lupo.html
Bella e approfondita lettura a cura di Antonietta Mirra
http://amicadeilibri.blogspot.it/2015/09/io-sono-la-montagna-di-michele-lupo.html
Lo stile dell’autore permette alla storia di non cedere, di non frantumarsi, di mantenere sempre alto il tono dell’interesse, fino allo sconcertante epilogo.
http://amicadeilibri.blogspot.it/2015/09/io-sono-la-montagna-di-michele-lupo.html
Lo stile dell’autore permette alla storia di non cedere, di non frantumarsi, di mantenere sempre alto il tono dell’interesse, fino allo sconcertante epilogo.
27 ago 2015
ancora Paolo Del Colle su Io sono la montagna
https://www.facebook.com/paolo.delcolle.5?fref=nf&pnref=story
Volete comprare il libro di Michele Lupo? http://www.ibs.it/code/9788899436063/lupo-michele/sono-montagna.html
La classifica dei libri più venduti è deprimente. E poi è libro a cui si ripensa. Io l'ho fatto (spero di non diminuire le vendite)
Ripensavo al protagonista di 'Io sono una montagna'; in fondo non non sono mai chiari o evidenti i motivi per cui bisognerebbe raccontare la propria vita. Lui è costretto a scriverla: così deve pure giustificare un'esistenza di merda per non affondarci ancora di più.
Eppure la lettera non è una confessione, non chiede perdono perchè la sua è una vita che si rifiuta al racconto, oppone ostinatamente resistenza alle parole che devono essere separate dai fatti, da ciò che fa, dal suo lavoro: non devono vedere. Esiste solo fare bene o male un compito e lo sbaglio si paga, anche nel linguaggio che affonda nell'animo del protagonista, lo incalza come i cani inesistenti che sente alle spalle. Questa fuga finale, le parole che improvvisamente gli si rivoltano contro, dimostrano un'autonomia dalla realtà nel momento in cui gliela sbattono in faccia ( fuga )che nella storia è all'inizio), esplode solo nel finale e non per una costruzione narrativa, ma perchè sfalderebbe nel personaggio la sicurezza esibita precedentemente, la pseudo saggezza appresa, la 'relativa' compostezza espressiva, cancellerebbe insomma tutto ciò che ha scritto. E' già questa la possibilità di cambiare vita? Come vuole la letteratura, sono le parole a salvarci e donarci un'altra occasione?
EPIKA EDIZIONI
Eppure la lettera non è una confessione, non chiede perdono perchè la sua è una vita che si rifiuta al racconto, oppone ostinatamente resistenza alle parole che devono essere separate dai fatti, da ciò che fa, dal suo lavoro: non devono vedere. Esiste solo fare bene o male un compito e lo sbaglio si paga, anche nel linguaggio che affonda nell'animo del protagonista, lo incalza come i cani inesistenti che sente alle spalle. Questa fuga finale, le parole che improvvisamente gli si rivoltano contro, dimostrano un'autonomia dalla realtà nel momento in cui gliela sbattono in faccia ( fuga )che nella storia è all'inizio), esplode solo nel finale e non per una costruzione narrativa, ma perchè sfalderebbe nel personaggio la sicurezza esibita precedentemente, la pseudo saggezza appresa, la 'relativa' compostezza espressiva, cancellerebbe insomma tutto ciò che ha scritto. E' già questa la possibilità di cambiare vita? Come vuole la letteratura, sono le parole a salvarci e donarci un'altra occasione?
EPIKA EDIZIONI
11 ago 2015
10 ago 2015
Costruzione narrativa impeccabile, 'Io sono la montagna', di Paolo Del Colle
grazie all'autore del bellissimo Spregamore, Paolo Del Colle per questa breve nota sul mio racconto
Un consiglio di lettura,' Io sono la montagna' di Michele Lupo con qualche appunto di lettura
Costruzione narrativa impeccabile, 'Io sono la montagna', un mosaico che si risolve pienamente solo all'ultima riga, dove si arriva in apnea, tanto che non è giusto narrare la vicenda. Ma non vi è compiacimento 'artigianale', è l'equivalente di una visione della realtà, solo apparentemente soggettiva, ma che riflette la decomposizione di un paese violento e impaurito, dove non sai mai se ciò che accade sia frutto di schegge impazzite o abilmente controllate. Sopra la storia del protagonista non c'è il destino, ma stratificazioni tanto più forti quanto più invisibili.
Al protagonista pesa scrivere, non è colto, non ha studiato, ha solo viaggiato per l'Europa in un eterno esilio: deve raccontare la sua storia, ma nel farlo contemporaneamente ricorda e cancella, come se 'le cose che ti rimangono addosso', fossero indicibili o ingiudicabili. Il mondo è retto dalla paura, anche per chi, come la donna cui è indirizzata la lettera, prega in gruppo il Signore, vuole cambiare la gente. Il silenzio di Dio, o la sua distrazione, direbbe il protagonista, è perché poniamo le domande sbagliate, ma del resto non possiamo fare altro, il bene e il male non ci fanno capire la nostra vita. Possiamo avere almeno l'occasione di cambiare, l'opportunità? Che questa sia delegata alla possibile partecipazione a un programma televisivo è l'ultimo tocco di ironia e di dolore che regala Michele Lupo. La realtà è ciò che non si vede, è con lei che si deve fare i conti.
8 ago 2015
Per L'onda sulla pellicola
La lingua impiegata da Michele Lupo, riconfermatasi di recente nella raccolta di racconti I fuoriusciti, Stilo, 2010, è proteiforme. Sanguigna, elettrica, sfacciata, colta, espressionistica. Poetica. La lingua ora di un saltimbanco dell’anima, ora di un virtuoso, ora di un consapevole/inconsapevole nipotino dei nipotini di Gadda: ma non di quelli della seconda generazione, dei cannibali, per intenderci, da cui si ribadisce, anzi, una distanza abissale. Un autore che può stare accanto, con gli opportuni adattamenti epocali, come a parenti più prossimi, a Manganelli, a Ceresa, a Ceronetti, ad Arbasino: nei confronti di quest’ultimo si avverte nel libro una sotterranea ammirazione per l’intelligenza acuta, il gusto dissacratorio, la parola colta. Una lingua stratificata, densa, capace di associazioni inusitate e precise, che il lettore consapevole riconosce come irrinunciabili, felicissime, perfette per la cosa rappresentata e per lui, per il suo godimento. In questo senso è possibile invocare, con cautela, la definizione di barocca anche per la lingua di Lupo, perché barocco è il mondo. Lingua e struttura narrativa si soccorrono vicendevolmente: su entrambe vige come un velo una nonchalance, una sprezzatura, una specie di flânerie, che abbandona il campo della fabula, come attratta da un’altra vicenda o il campo di un dato registro, per sondarne un altro.
Da un'appassionata e argomentata lettura di Lucia Tosi qui https://rebstein.wordpress.com/2011/03/05/londa-sulla-pellicola/
Michele Lupo porta Dio sul banco degli imputati Recensione di Saul Stucchi
http://www.alibionline.it/michele-lupo-porta-dio-sul-banco-degli-imputati/
“Quando li beccavano e li rimandavano indietro, Vera, Dio mi sa che spariva. È solo un sospetto e non ti alterare per così poco. Dio non ce la fa a controllare tutto. Non l’aveva prevista così difficile, il Signore. È per questo che toppa il bersaglio a volte. Se quelli riuscivano a trasformare la paura fino al punto di stare quattro giorni senza mangiare, Dio avrebbe dovuto rispettarli, Vera. Dio si sopravvaluta. Fa errori da pivello”.
24 lug 2015
Quarta di copertina
Una
piccola, sgangherata epica individuale sul traffico di esseri umani vista da
una prospettiva insolita: la coscienza delirante di un personaggio, un passeur, che si vorrebbe ragionevole,
marito e padre incompreso, emigrante ben prima dei migranti, salvatore di vite altrui, e invece è: “nero, saggio molto a modo suo,
completamente allo sbando, un uomo che, malgrado la crescita esperienziale, non
è capace di resistere alla propria anima e, quindi, al proprio destino. Il
racconto di Michele Lupo è una bella, terribile metafora sulla forza cieca e
tragica del carattere”.
recensione di Ippolita Luzzo
http://trollipp.blogspot.it/2015/07/il-passeur-che-passera-michele-lupo-io.html
Con una scrittura sempre all'altezza della situazione, mai rallentata, sempre sul ritmo della storia
Con una scrittura sempre all'altezza della situazione, mai rallentata, sempre sul ritmo della storia
recensione di Giulia Vitiello
http://animadellestorie.blogspot.it/2015/07/recensioni-epike.htmlhttp://animadellestorie.blogspot.it/2015/07/recensioni-epike.html
Pian piano tutte queste piccole storie si sviluppano e si concludono incastrandosi tra di loro e mostrando a tutto tondo la figura di un protagonista controverso. Alla fine tutto si svela e il lettore resta incollato fino all'ultima pagina per poter capire. Perché lo stile fila alla perfezione, è un immenso monologo interiore che non vacilla mai.
Pian piano tutte queste piccole storie si sviluppano e si concludono incastrandosi tra di loro e mostrando a tutto tondo la figura di un protagonista controverso. Alla fine tutto si svela e il lettore resta incollato fino all'ultima pagina per poter capire. Perché lo stile fila alla perfezione, è un immenso monologo interiore che non vacilla mai.
22 lug 2015
recensione a io sono la montagna http://animadellestorie.blogspot.it
I fili dei vari discorsi sono gestiti egregiamente dall'autore: li tira tutti un po' per volta - il rapporto con la famiglia, il carcere, l'esperienza con gli immigrati, la vita che lui stesso ha avuto come immigrato in Germania, la relazione con il paese d'origine. Non perde niente, gestisce tutti con agilità che ho trovato stupefacente.
Giulia Vitiello
Giulia Vitiello
11 lug 2015
30 giu 2015
18 mag 2015
scritto per satisfiction Sordi & Sonego
IL CERVELLO DI ALBERTO SORDI. RODOLFO SONEGO E IL SUO CINEMA
Recensione di Michele Lupohttp://www.satisfiction.me/il-cervello-di-alberto-sordi-rodolfo-sonego-e-il-suo-cinema//
“Ve lo meritate Alberto Sordi!” disse una volta Nanni Moretti, il cui cervello al
tempo era gestito in proprio ed era capace di battute epocali - ora è in appalto
a Francesco Piccolo mentre dietro quello di Sordi stava Rodolfo Sonego e chi
non capisce la differenza si merita Moretti, Piccolo e Piovani con le sue musichette
tristo-chic. Se Sordi non aveva mai letto un libro in vita sua (buonanima ci
perdonerà la moderata esagerazione), a scrivergli film che ora dove li trovi
(Una vita difficile, Lo scopone scientifico, Il vedovo) era un intellettuale bellunese,
sofisticato, di ottime letture giovanili, con ambizioni iniziali di pittore (“i miei
miti non si chiamavano Rossellini o Amidei ma Braque, Mondrian, Picasso”) t
enute al caldo negli anni della Resistenza, partigiano con tanto di nome di
battaglia, ‘Benevento’, e un nome vero, Rodolfo Sonego, che ancora non dice
granché ai più pur avendo contribuito in misura notevole a fare la storia del cinema italiano.
Ora, dobbiamo a uno splendido trovarobe di Tatti Sanguineti una conoscenza meno sommaria dello sceneggiatore: Il cervello di Alberto Sordi è un volumone che raccoglie note biografiche, interviste, chiacchiere,
rivelazioni su progetti realizzati o morti per strada che hanno visto la coppia Sordi-Sonego fare il bello e il
cattivo tempo (non è che tutti i loro film fossero memorabili, anzi, il declino dei due andando di pari passo
con le fallimentari ambizioni di regista dell’attore) del cinema nostrano – potrebbe forse sorprendere i lettori
che le storie di una coppia sì smaccatamente nazional-popolare trovi spazio nelle edizioni Adelphi. Ma
qualcuno saprà che c’era già stata anni fa la piccola edizione del Diario australiano: lì, fra gli appunti di
viaggio, si buttavano le tracce di un notissimo film girato da Luigi Zampa, Bello, onesto, emigrato
Australia sposerebbe compaesana illibata, ennesimo titolo fra gli innumerevoli firmati da Sonego.
Tatti Sanguineti ricostruisce e racconta attraverso la fabbrica dello sceneggiatore una vera summa
dell’antropologia italiana. Bugiardi, mammoni, papalini, teatranti, infantili figli di puttana, mostri insomma:
ed è lì, sul racconto di quella mostruosità indigena che si trova il punto di giunzione (l’unico, dice lo
sceneggiatore) che rende possibile l’avventura Sordi-Sonego. Pure, non è questa la cosa più interessante
del libro. Che la nostra commedia, quella migliore, comunichi al mondo alcuni dei tratti nazionali è cosa arcinota.
Né vale la pena insistere sugli aspetti melodrammatici, ridicoli e patetici della faccenda. La sorpresa caso
mai la offre la lucidità, la cultura illuminista di Sonego che vede con franchezza spietata non priva però di
amabilità sia nell’uomo che nell’attore (Sordi). Non gli risparmia nulla, a partire dagli inizi, quando conferma
la versione di Sanguineti al quale risulta che il giovane Sordi rompesse le scatole a tutti pur di lavorare
(“Quando Sordi canta Te c’hanno mai mannato a quer paese è perché lui in quegli anni a quel paese
ce lo mannavano spesso”). La durezza realistica anche dell’uomo (Sordi) veniva, secondo Sonego, dalla
mancanza di indulgenza che aveva patito sulla propria pelle tentando di farsi strada. Né Sonego si sforza
granché di negare il qualunquismo dell’attore, la sua incultura piccolo-borghese – laddove lo sceneggiatore
diceva di sé: “Ecco, io come uomo, sono l’esatto contrario del personaggio che continuo a raccontare e
al quale presto le battute che Sordi pronuncia da vent’anni sullo schermo”.
Pure, la grandezza dell’attore ne emerge assoluta – e, si direbbe, proprio da quel vuoto: andrebbe riconosciuto
– ma questa è idea dello scrivente – che l’arte di un attore non necessità di virtù intellettuali. Il mostro Sordi,
ignaro di biblioteche, ruffiano, italiano al peggio possibile, nostro prossimo vicino, ha trovato qualcuno che
sapeva farlo “essere”. Che gli ha dato modo di esercitare virtù certo in un attore più decisive: la follia, l’istinto,
il fiuto da “animale selvaggio”: questa era la verità di Sordi.
Ma non c’è solo lui nello spassoso – e anche utile (per tutte le schede filmiche che contiene) – libro di Sanguineti (Tatti, per fortuna). Sonego parla dei suoi film, dei suoi incontri, delle sue esperienze. Di uomo colto ma affrancato
da certi schematismi engagé imperanti fra gli anni Cinquanta e Settanta, tanto da non mandarla a dire a un
critico temutissimo e impantanato nel realismo soviet come Aristarco (benché Sonego fosse nella
lista dei fantomatici capi comunisti che il golpe sventato del generale De Lorenzo, 1963, prevedeva di
mandare a svernare in Sardegna). L’Italia gli stava stretta; di lì i numerosi viaggi, l’Africa, l’Estremo Oriente
(gli Usa non gli portarono solide fortune) - immaginarselo, in compagnia di quel “monoglotta irriducibile”
di Sordi, quasi una ripetizione dell’eterna coppia Don Chisciotte- Sancho Panza…
Lapidari poi alcuni ritratti; Vittorio De Sica: “il più grande uomo di cinema del mondo”; Antonioni,
“un grande fotografo a colori”; Flaiano, “un matematico a caccia di equazioni numeriche; Marco Ferreri,
“un uomo d’affari molto serio”. E poi Parise, la Loren, Dino Risi, Brigitte Bardot…
. Adelphi 2015, pp. 588, 26,00 euro
8 mag 2015
su satisfiction una conversazione con Orson Welles
A PRANZO CON ORSON. CONVERSAZIONI TRA HENRY JAGLOM E ORSON http://www.satisfiction.me/a-pranzo-con-orson-conversazioni-tra-henry-jaglom-e-orson-welles/ Recensione di Michele Lupo
Non è vero che volesse vendicarsi di lei, della povera, splendida Rita Hayworth. La amava ancora (anche se “non sessualmente… dovevo metterci tutto l’impegno per scoparla”) quando girarono La signora di Shanghai (film che come altri non completò e gli venivano distrutti dalla produzione anche per colpa della sua bulimica inquietudine che lo portava sempre altrove – non che non ci lascino ancora occhi spalancati). Se le fece tagliare i capelli e ne trasformò l’immagine in un modo che non gli fu perdonato era semplicemente perché lui era Orson Welles: gli altri (le altre, anche se si chiamavano Rita Hayworth) solo attori. Ossia funzioni di un’idea estetica il cui solo demiurgo era lui, un regista che scriveva. E se è vero che ne sparava tante, Welles su una cosa aveva indubitabilmente ragione: “L’intelligenza è un handicap per un attore (…) il tipo cerebrale può essere un grande attore ma è più difficile”.
Il bello del libro ora in uscita per Adelphi A pranzo con Orson Welles, a cura di Peter Biskind, sta nell’evitare sia l’agiografia per un regista fra i tre o quattro decisivi della storia del cinema, sia l’attacco scandalistico teso a denigrare il personaggio poco conforme ai dettami del perbenismo che dall’altare della correttezza politica da decenni ammorba qualsiasi discorso culturale. Sicché teniamoci stretto il genio che preferiva amici di destra ai santini e alle anime belle – ma Eastwood non volle girare per lui in The Big Brass Ring (ultimo tra i film che non gli riuscì di realizzare) “perché troppo di sinistra”. Il libro non è una biografia, ma una serie di interviste fatte da Henry Jaglom, attore e regista a sua volta, che tra il 1983 e il 1985 parlò con lui più volte, con un registratore sotto il tavolo (Welles gli aveva fatto la proposta di registrarlo, ma preferiva dimenticarselo). Erano gli ultimi anni di vita ed era terrorizzato dall’idea che il giovane ammiratore potesse trasmettergli l’Aids.
Interviste dal sapore forte. Se i grandi spesso fra loro non si tollerano – avere una visione forte delle cose, sul senso dell’arte in cui ci si cimenta per esempio, un’idea decisa su ciò che si vuole dal proprio mestiere, tutto ciò può facilmente rendere intollerabile posizioni diverse – nel caso di Orson Welles la personalità straripante gioca un ruolo non secondario. Se provava immediata simpatia per un pianista come Rubinstein perché diceva di non esercitarsi granché (e gli piaceva vivere e godersi la vita), la lista dei suoi nemici (anche immaginari) è lunga. Non tollerava Woody Allen: “Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza che mi dà l’orticaria”; ma sullo stesso Chaplin il giudizio era più complesso (in sintesi: ”Profondamente cretino per molti aspetti, tutta questa sdolcinata imbecillità inframmezzata da tanti colpi di genio”). E poi Brando (“un salsiccione”), Humphrey Bogart, (“un vigliacco”) la Hepburn (meglio non dire cosa), e ancora Polanski, John Huston, Jean-Paul Sartre. Per non parlare dei giudizi avventati su film bellissimi come Chinatown o La donna che visse due volte). O del razzismo ostentato: “Niente nani etnici. Non voglio gente scura con la faccia strana” si riferiva a Dustin Hoffman, Robert De Niro e Al Pacino. Intemperante, alieno a ogni diplomazia, “famoso per la sua intolleranza alla stupidità”, Welles era incontenibile – in tutti i sensi. Racconta Jaglom di una sera di quegli anni finali di diete tristissime. Welles mangiava insalate e fingeva di accontentarsi del piacere altrui. “Assaggia e dimmi com’è, mi chiedeva. Non immaginavo che al ritorno in albergo avrebbe svegliato lo chef nel cuore della notte per farsi portare quattro bistecche, sette contorni di patate arrosto e un sacco di altra roba”.
Il fatto serio è che le idiosincrasie personali o artistiche di Welles hanno avuto un peso nullo rispetto a quelle che di cui fu vittima lui. Il peccato originale dell’irrefrenabile genio è ovviamente Citizen Kane (“un film troppo sofisticato per un pubblico di massa” dunque un flop commerciale inaudito): non fu tanto il quarto potere a non perdonarlo quanto quella Hollywood di cui aveva un bisogno vitale (perché la peculiare immaginazione filmica del regista del Wisconsin necessitava di risorse economiche diverse da quelle di cui spesso si è accontentato il cinema indipendente – budget impegnativi, insomma). Vien da pensare che un po’ se la sia cercata, Welles, artista vero ma troppo inquieto per finire tutto ciò che gli passava per la testa. Ma il resto è – legge implacabile della storia umana – a carico della stupidità altrui: come Fellini, uno dei pochi che restano a quelle latitudini, morì non trovando chi gli finanziasse i suoi film.
In questi giorni, avrebbe compiuto cento anni.
Il nostro saluto è devoto.
Il bello del libro ora in uscita per Adelphi A pranzo con Orson Welles, a cura di Peter Biskind, sta nell’evitare sia l’agiografia per un regista fra i tre o quattro decisivi della storia del cinema, sia l’attacco scandalistico teso a denigrare il personaggio poco conforme ai dettami del perbenismo che dall’altare della correttezza politica da decenni ammorba qualsiasi discorso culturale. Sicché teniamoci stretto il genio che preferiva amici di destra ai santini e alle anime belle – ma Eastwood non volle girare per lui in The Big Brass Ring (ultimo tra i film che non gli riuscì di realizzare) “perché troppo di sinistra”. Il libro non è una biografia, ma una serie di interviste fatte da Henry Jaglom, attore e regista a sua volta, che tra il 1983 e il 1985 parlò con lui più volte, con un registratore sotto il tavolo (Welles gli aveva fatto la proposta di registrarlo, ma preferiva dimenticarselo). Erano gli ultimi anni di vita ed era terrorizzato dall’idea che il giovane ammiratore potesse trasmettergli l’Aids.
Interviste dal sapore forte. Se i grandi spesso fra loro non si tollerano – avere una visione forte delle cose, sul senso dell’arte in cui ci si cimenta per esempio, un’idea decisa su ciò che si vuole dal proprio mestiere, tutto ciò può facilmente rendere intollerabile posizioni diverse – nel caso di Orson Welles la personalità straripante gioca un ruolo non secondario. Se provava immediata simpatia per un pianista come Rubinstein perché diceva di non esercitarsi granché (e gli piaceva vivere e godersi la vita), la lista dei suoi nemici (anche immaginari) è lunga. Non tollerava Woody Allen: “Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza che mi dà l’orticaria”; ma sullo stesso Chaplin il giudizio era più complesso (in sintesi: ”Profondamente cretino per molti aspetti, tutta questa sdolcinata imbecillità inframmezzata da tanti colpi di genio”). E poi Brando (“un salsiccione”), Humphrey Bogart, (“un vigliacco”) la Hepburn (meglio non dire cosa), e ancora Polanski, John Huston, Jean-Paul Sartre. Per non parlare dei giudizi avventati su film bellissimi come Chinatown o La donna che visse due volte). O del razzismo ostentato: “Niente nani etnici. Non voglio gente scura con la faccia strana” si riferiva a Dustin Hoffman, Robert De Niro e Al Pacino. Intemperante, alieno a ogni diplomazia, “famoso per la sua intolleranza alla stupidità”, Welles era incontenibile – in tutti i sensi. Racconta Jaglom di una sera di quegli anni finali di diete tristissime. Welles mangiava insalate e fingeva di accontentarsi del piacere altrui. “Assaggia e dimmi com’è, mi chiedeva. Non immaginavo che al ritorno in albergo avrebbe svegliato lo chef nel cuore della notte per farsi portare quattro bistecche, sette contorni di patate arrosto e un sacco di altra roba”.
Il fatto serio è che le idiosincrasie personali o artistiche di Welles hanno avuto un peso nullo rispetto a quelle che di cui fu vittima lui. Il peccato originale dell’irrefrenabile genio è ovviamente Citizen Kane (“un film troppo sofisticato per un pubblico di massa” dunque un flop commerciale inaudito): non fu tanto il quarto potere a non perdonarlo quanto quella Hollywood di cui aveva un bisogno vitale (perché la peculiare immaginazione filmica del regista del Wisconsin necessitava di risorse economiche diverse da quelle di cui spesso si è accontentato il cinema indipendente – budget impegnativi, insomma). Vien da pensare che un po’ se la sia cercata, Welles, artista vero ma troppo inquieto per finire tutto ciò che gli passava per la testa. Ma il resto è – legge implacabile della storia umana – a carico della stupidità altrui: come Fellini, uno dei pochi che restano a quelle latitudini, morì non trovando chi gli finanziasse i suoi film.
In questi giorni, avrebbe compiuto cento anni.
Il nostro saluto è devoto.
24 apr 2015
su satisfiction le vacche amiche di aldo busi
http://www.satisfiction.me/vacche-amiche-unautobiografia-non-autorizzata/
VACCHE AMICHE, UN’AUTOBIOGRAFIA NON AUTORIZZATA
Recensione di Michele Lupo
“L’invidia è un sentimento segreto che trapela senza che tu lo possa manifestare apertamente, e non fa per me, mi sono voluto troppo estrovertito e diretto per covare sentimenti vergognosi: l’odio lo puoi manifestare, l’amore non del tutto, l’invidia te la devi tenere per intero”. Ecco, credo che un’invidia ovviamente inconfessata abbia avuto la sua parte nella generazione di scrittori tanto anagraficamente vicini quanto astiosi nei confronti di Aldo Busi, non a caso apertamente e giustamente considerato fra i maggiori dai narratori italiani più giovani. Un’invidia coriacea, ottundente, ché uno scrittore incapace in trent’anni di vedere la meraviglia del fraseggio busiano non si dà in natura: o scrittore a sua volta non è oppure qualcosa di poco commendevole gli impedisce di leggere con occhi limpidi nello splendore altrui – certo, si possono dare delle eccezioni: come altrimenti spiegare l’incapacità dello stesso Busi di comprendere la grandezza di Proust manco fosse Missiroli?
Poi Busi vi ha messo del suo con l’immarcescibile principio secondo il quale non ci sarebbe (mai stato) iato fra lo scrittore e l’uomo, la cui egolatria gli ha consentito di scambiare per folgorazioni di un santo, apparizioni televisive esasperanti (non si illuda: non perché superbe, accanto ad altre che invece lo sono state): si direbbe insomma che se li sia andati a cercare, l’invidia e il sospetto – ben prima dell’”autosputtanamento di massa” di cui ha parlato di recente. Peraltro – va detto, e dato merito non da poco in un paese così lutulento in ogni suo piccolo affare – sottraendosi alle comunelle de amichetti de sinistra che hanno provato a tenersi in piedi sostenendo le reciproche ciofeche sempre inutilmente perbene tranne che nella scrittura. E lavorando come pochi, con l’acribia contadina del solo personaggio che lungo i suoi libri ha dimostrato di am(mir)are (quasi?) senza defezioni: sua madre; costruendosi – fuori dai percorsi classici ma senza per questo sbracarsi nella faciloneria del genere “getta prim’ancora di usarlo”, una lingua da autodidatta mentre imparava (e traduceva da) l’inglese, il tedesco etc – e che lingua, la più stupefacente fra le italiane degli ultimi trent’anni. E dunque chi se ne frega se l’ostinata mitologizzazione di sé sia andata di pari passo con la grandezza della sua scrittura fino a quest’ultimo Vacche Amiche, pubblicato con Marsilio, se nemmeno l’ironia e anche certa inevitabile malinconia non impedisca la tentazione del santino quando hai davanti un libro in cui sai che non puoi saltare una pagina, non perché rischi di smarrire il filo della storia – della trama giustamente fregandogliene allo scrittore meno che andare a letto con una donna (e allo scrivente meno che andare a letto con un uomo) – ma perché rileggendolo anni dopo (ché un vero scrittore lo rileggi, un facitore di trame lo rinneghi subito dopo avergli dato un attimo del tuo tempo perso) pensi “guarda che m’ero perso” ossia una lunga frase che ti fa girare la testa prima per non averla compresa da subito e poi per averne inteso fin troppo bene la meraviglia di lingua e di immaginazione. Uno uno scrittore che anche parlasse sempre di sé come sostengono i suoi detrattori, attraverso una foglia di platano o una gallina o un culo parlerà di te a te lettore come pochi hanno saputo fare da parecchio tempo a questa parte – ché poi, nemmeno questo è vero: andatevi a rileggere Vita standard di un venditore provvisorio di collant, strepitoso secondo romanzo e troverete in Celestino Lometto l’italiano più vero dell’ultimo quarto di secolo (ossia l’italiano tout court).
Il resto sarebbe quasi superfluo. In Vacche amiche tornano temi ricorrenti: l’essere uomini innanzitutto in una maniera che renda dignitosa la sopravvivenza della specie, l’aspirazione a una libertà che “non è una convinzione interiore e un ornamento mentale” ma invece “una lotta sociale dalle ferite inguardabili che non si chiudono mai (…), una disciplina durissima e un’esistenza marziale soprattutto in tempi di pace, poiché per essa la pace è sempre apparente, è un trucco perché si rammollisca”. Ancora, il discorso sulla sessualità che parta da una parresìa che pure in intellettuali che se ne dichiaravano fautori latitava (Foucault), l’anticlericalismo indomito e in questa forma purtroppo raro nella cultura italiana, la quasi impossibilità di mantenere rapporti umani che possano definirsi amicali, affettivi e la sofferenza che ne è derivata (qui il patimento del narratore deriva da tre donne destinate a deluderlo), la necessità della verità dell’uomo e dello scrittore (laddove l’amicizia purtroppo non riesce a fare a meno dell’ipocrisia)
E pure, il piacere del vivere, di assaporare ogni cosa del quotidiano, congiunto all’imperativo di un’etica civile – pagano vero che fuori tempo massimo ha l’ardire di dichiararsi “di sinistra”, Busi, in un paese di preti rossi e neri, ditemi voi.
Ah dimenticavo: il sottotitolo del libro è “un’autobiografia non autorizzata”. Se ha intenzione di inviare un killer, Busi, faccia presto.
Poi Busi vi ha messo del suo con l’immarcescibile principio secondo il quale non ci sarebbe (mai stato) iato fra lo scrittore e l’uomo, la cui egolatria gli ha consentito di scambiare per folgorazioni di un santo, apparizioni televisive esasperanti (non si illuda: non perché superbe, accanto ad altre che invece lo sono state): si direbbe insomma che se li sia andati a cercare, l’invidia e il sospetto – ben prima dell’”autosputtanamento di massa” di cui ha parlato di recente. Peraltro – va detto, e dato merito non da poco in un paese così lutulento in ogni suo piccolo affare – sottraendosi alle comunelle de amichetti de sinistra che hanno provato a tenersi in piedi sostenendo le reciproche ciofeche sempre inutilmente perbene tranne che nella scrittura. E lavorando come pochi, con l’acribia contadina del solo personaggio che lungo i suoi libri ha dimostrato di am(mir)are (quasi?) senza defezioni: sua madre; costruendosi – fuori dai percorsi classici ma senza per questo sbracarsi nella faciloneria del genere “getta prim’ancora di usarlo”, una lingua da autodidatta mentre imparava (e traduceva da) l’inglese, il tedesco etc – e che lingua, la più stupefacente fra le italiane degli ultimi trent’anni. E dunque chi se ne frega se l’ostinata mitologizzazione di sé sia andata di pari passo con la grandezza della sua scrittura fino a quest’ultimo Vacche Amiche, pubblicato con Marsilio, se nemmeno l’ironia e anche certa inevitabile malinconia non impedisca la tentazione del santino quando hai davanti un libro in cui sai che non puoi saltare una pagina, non perché rischi di smarrire il filo della storia – della trama giustamente fregandogliene allo scrittore meno che andare a letto con una donna (e allo scrivente meno che andare a letto con un uomo) – ma perché rileggendolo anni dopo (ché un vero scrittore lo rileggi, un facitore di trame lo rinneghi subito dopo avergli dato un attimo del tuo tempo perso) pensi “guarda che m’ero perso” ossia una lunga frase che ti fa girare la testa prima per non averla compresa da subito e poi per averne inteso fin troppo bene la meraviglia di lingua e di immaginazione. Uno uno scrittore che anche parlasse sempre di sé come sostengono i suoi detrattori, attraverso una foglia di platano o una gallina o un culo parlerà di te a te lettore come pochi hanno saputo fare da parecchio tempo a questa parte – ché poi, nemmeno questo è vero: andatevi a rileggere Vita standard di un venditore provvisorio di collant, strepitoso secondo romanzo e troverete in Celestino Lometto l’italiano più vero dell’ultimo quarto di secolo (ossia l’italiano tout court).
Il resto sarebbe quasi superfluo. In Vacche amiche tornano temi ricorrenti: l’essere uomini innanzitutto in una maniera che renda dignitosa la sopravvivenza della specie, l’aspirazione a una libertà che “non è una convinzione interiore e un ornamento mentale” ma invece “una lotta sociale dalle ferite inguardabili che non si chiudono mai (…), una disciplina durissima e un’esistenza marziale soprattutto in tempi di pace, poiché per essa la pace è sempre apparente, è un trucco perché si rammollisca”. Ancora, il discorso sulla sessualità che parta da una parresìa che pure in intellettuali che se ne dichiaravano fautori latitava (Foucault), l’anticlericalismo indomito e in questa forma purtroppo raro nella cultura italiana, la quasi impossibilità di mantenere rapporti umani che possano definirsi amicali, affettivi e la sofferenza che ne è derivata (qui il patimento del narratore deriva da tre donne destinate a deluderlo), la necessità della verità dell’uomo e dello scrittore (laddove l’amicizia purtroppo non riesce a fare a meno dell’ipocrisia)
E pure, il piacere del vivere, di assaporare ogni cosa del quotidiano, congiunto all’imperativo di un’etica civile – pagano vero che fuori tempo massimo ha l’ardire di dichiararsi “di sinistra”, Busi, in un paese di preti rossi e neri, ditemi voi.
Ah dimenticavo: il sottotitolo del libro è “un’autobiografia non autorizzata”. Se ha intenzione di inviare un killer, Busi, faccia presto.
10 lug 2013
Il ritmo dell'architetto
in vendita qui http://www.lite-editions.com/atlantis/michele-lupo/il-ritmo-dell-architetto.html
oppure http://www.amazon.it/Il-ritmo-dellarchitetto-ebook/dp/B00DTR655K
http://www.ibs.it/ebook/Lupo-Michele/Il-ritmo-dell/9788866654629.html
Mentre su quella città la vita sarebbe continuata per sempre, Luca sarebbe stato dimenticato, sarebbe restato solo un nome incerto nella memoria casuale di qualcuno indaffarato da qualche altra parte.
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Mentre su quella città la vita sarebbe continuata per sempre, Luca sarebbe stato dimenticato, sarebbe restato solo un nome incerto nella memoria casuale di qualcuno indaffarato da qualche altra parte.
6 lug 2013
12 giu 2013
Giancarlo Liviano D'Arcangelo
su lankelot
Nella chiacchiera bolsa sullo stato delle cose in Italia, segnatamente quando si parla di lavoro, si omette di dire che il fallimento di questo tristissimo e ridanciano paese è anche di idee – si campa (si boccheggia) sulle spalle di una malintesa creatività italiana che pare più un reperto del passato che una risorsa del presente (sul futuro meglio tacere). Come se l’odierna crisi dipendesse tutta e solo da oscure, esoteriche macchinazioni finanziarie, e niente avesse da spartire con la totale assenza di un progetto - di una politica industriale, per esempio. A meno di non definire tale l’esasperata miniaturizzazione in piccole imprese che hanno tirato fino allo spasmo senza curarsi granché della innovazione, del bene pubblico, dei diritti di chi vi lavora(va). Da padroni – il caso di dire – l’hanno fatta l’improvvisazione, la pensata estemporanea, l’avventura individuale non di rado cialtronesca.
Nella storia – tutt’altro che giornalistica - di questo fallimento consiste parte del libro dello scrittore pugliese Giancarlo Liviano D’Arcangelo "Invisibile e' la tua vera patria" (l’editore è Il Saggiatore), bel viaggio nel paese (che fu) da nord a sud: una ricognizione dell’Italia industriale del ‘900, dei suoi luoghi fisici e della vera vita che vi ha preso corpo: economia, società e immaginario persino. Raffinerie, miniere, architetture industriali a volte maestose che dopo aver fatto deflagrare il paesaggio e averlo consumato fino all’ultima pietra hanno lasciato solo rovine: dalle centrali elettronucleari intorno al Garigliano alle acciaierie di Taranto passando per il petrolchimico di Ravenna e le miniere sarde del Sulcis.
Ma non solo questo. Il libro non parla solo di stabilimenti dismessi – di fallimenti. Tornano anche storie commendevoli ed esempidi quella progettualità “a misura d’uomo” nominata prima, come il villaggio operaio - patrimonio dell’umanità - fondato dai cotonieri Crespi, modello di imprenditoria tessile e visione d’insieme di una vita, di una comunità possibile che non riduce il lavoro alla mera logica dello sfruttamento degli uomini e del territorio.
Semplificando ma non troppo, l’Olivetti di Ivrea e l’Ilva di Taranto rappresentano i due poli, negativo e positivo, del viaggio di Liviano D’Arcangelo. Nel primo caso si è provato a tenere insieme lavoro e una vita “possibile” ossia non sottomessa alle mere ragioni del capitalismo: “l’universo olivettiano quale prova di un’alterità assoluta”. L’imprenditore che volle circondarsi di intellettuali non ebbe vita facile nel suo progetto di una città dell’uomo ma riuscì a segnare un capitolo raro nella storia della vita italiana tout court. Lo scrittore racconta come la Cia, monitorandone l’azione, in tempi di guerra fredda scopriva che un’impresa come quella di Olivetti, decisa a coniugare i principi dell’efficienza industriale a un idealismo – all’epoca ritenuto paternalistico dai marxisti – attento al benessere della comunità, poteva essere un ottimo baluardo contro le tentazioni dello stalinismo.
INVISIBILE È LA TUA VERA PATRIA
Nella storia – tutt’altro che giornalistica - di questo fallimento consiste parte del libro dello scrittore pugliese Giancarlo Liviano D’Arcangelo "Invisibile e' la tua vera patria" (l’editore è Il Saggiatore), bel viaggio nel paese (che fu) da nord a sud: una ricognizione dell’Italia industriale del ‘900, dei suoi luoghi fisici e della vera vita che vi ha preso corpo: economia, società e immaginario persino. Raffinerie, miniere, architetture industriali a volte maestose che dopo aver fatto deflagrare il paesaggio e averlo consumato fino all’ultima pietra hanno lasciato solo rovine: dalle centrali elettronucleari intorno al Garigliano alle acciaierie di Taranto passando per il petrolchimico di Ravenna e le miniere sarde del Sulcis.
Ma non solo questo. Il libro non parla solo di stabilimenti dismessi – di fallimenti. Tornano anche storie commendevoli ed esempidi quella progettualità “a misura d’uomo” nominata prima, come il villaggio operaio - patrimonio dell’umanità - fondato dai cotonieri Crespi, modello di imprenditoria tessile e visione d’insieme di una vita, di una comunità possibile che non riduce il lavoro alla mera logica dello sfruttamento degli uomini e del territorio.
Semplificando ma non troppo, l’Olivetti di Ivrea e l’Ilva di Taranto rappresentano i due poli, negativo e positivo, del viaggio di Liviano D’Arcangelo. Nel primo caso si è provato a tenere insieme lavoro e una vita “possibile” ossia non sottomessa alle mere ragioni del capitalismo: “l’universo olivettiano quale prova di un’alterità assoluta”. L’imprenditore che volle circondarsi di intellettuali non ebbe vita facile nel suo progetto di una città dell’uomo ma riuscì a segnare un capitolo raro nella storia della vita italiana tout court. Lo scrittore racconta come la Cia, monitorandone l’azione, in tempi di guerra fredda scopriva che un’impresa come quella di Olivetti, decisa a coniugare i principi dell’efficienza industriale a un idealismo – all’epoca ritenuto paternalistico dai marxisti – attento al benessere della comunità, poteva essere un ottimo baluardo contro le tentazioni dello stalinismo.
All’opposto, va da sé, la sciagurata storia tarantina (che all’autore sta a cuore anche per ragioni biografiche). Qui – nel mastodonte siderurgico che ancora fa dire a molti “meglio morire di cancro che di fame” - tutto è sottomesso a interessi privati. La tragedia è viva – sebbene il paesaggio faccia pensare all’incandescenza dell’inferno -: odierna. Materia giornalistica, come tutti sanno, ma capace purtroppo di compendiare in un unico luogo ferocia e miserie e aberrazioni apocalittiche. Quello di Liviano D’Arcangelo è un prezioso reportage che - pur non mancando dati, resoconti più o meno oggettivi e inserti fotografici – ha più del letterario che del giornalistico. Vi si ricostruisce bene il senso, il valore anche simbolico, così come l’orizzonte di speranze e le reali condizioni di vita di una parte fondamentale della storia italiana moderna. L’autore scrive a partire dai racconti di uomini che quelle storie le hanno vissute in prima persona; e lo fa mettendo in scena il proprio personale coinvolgimento, nutrito più di formazione sentimentale che di griglie ideologiche. La narrazione e l’enucleazione dei fatti è costruita all’interno di una visione: sguardo e immaginazione dello scrittore. Ciò da un indubbia forza espressiva al libro, ma talvolta gli fa correre dei rischi. Certi tratti stilistici risultano un po’ enfatici - Liviano D’Arcangelo è un virtuoso e qua e là si fa prendere la mano. Succede perlopiù quando è toccato dalla “commozione” per ciò che vede e ciò che è andato perduto: in quei casi l’aggettivazione ne risulta sbilanciata. A suo modo un libro di storia, eterodosso, obliquo, ma intenso.
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