14 feb 2011

Come si ascolta il jazz - pdo


Ben Ratliff

Come si ascolta il jazz (Conversazioni con Wayne Shorter – Pat Metheny – Sonny Rollins…)

minimum fax


copertina del libro
Ben Ratliff, critico del New Yor Times, già biografo di John Coltrane, ha raccolto in questo libro quindici interviste-ritratti di jazzisti di fama più o meno storica. Si tratta in realtà di conversazioni – lo dice il sottotitolo – con pazienza concertate e “costruite” dall’autore assieme a musicisti del calibro di Sonny Rollins, Joshua Redman, Branford Marsalis e altri. Ascoltando dischi propri e registrazioni altrui in situazioni all’apparenza informali, a volte persino domestiche, con tanto di rumori di vita quotidiana e familiare, i musicisti presenti in questo libro si sono lasciati andare evitando l’atteggiamento difensivo che spesso (a mio avviso non sempre a torto) assumono rispetto alle domande della critica, segnate come sono da un linguaggio convenzionale o da un canone storiografico che possono allontanare il senso più profondo dell’esperienza estetica. L’altro rischio delle interviste ai musicisti, ricorda Ratliff, è quello di approfittarne per operazioni di marketing. Il critico americano è stato bravo nel favorire un’aria friendly all’origine della sincerità dimostrata dagli intervistati, la qual cosa fa guadagnare a tutta l’operazione un’intelligenza della musica (non solo jazz) molto interessante per qualsiasi appassionato. 
Ratliff nell’introduzione al volume dichiara i propri debiti con Leonard Feather, che inaugurò il blindfold test (test a occhi bendati), metodo nel quale si chiedeva all’intervistato di riconoscere l’autore della musica che ascoltavano, il che consentiva di tirar fuori un giudizio spassionato, meno segnato dal pregiudizio o dall’insofferenza personale. 
Così qui, succede che ognuno degli intervistati consegni senza volerlo una definizione della propria musica, o di cosa sia il jazz, parlando di altri musicisti piuttosto che di sé, sottolineando liberamente passaggi, modalità espressive, tecniche altrui. 
Prendiamo degli esempi; Sonny Rollins, incontrato in un momento non felicissimo, dopo la morte della moglie. All’intervistatore che gli chiede un giudizio su un suo concerto, il grande improvvisatore di sax tenore manifesta un’acuta ritrosia nel rispondere: “Io vedo le cose dall’interno”, dice infine - che a me pare una definizione limpidissima di poetica: perché fa a meno di gettare sull’opera la finzione di secondo grado che le viene dall’ideologia. In altre parole, una risposta onesta che rifiuta di archiviare la musica secondo tassonomie critiche che pretendono di collocarla (sia pure scivolosa com’è nel caso dell’improvvisazione) in un “contesto” di misure oggettive (vale per la musica qui un principio ben applicabile alla letteratura: oggi nella nostra lingua qualcuno si contende un presunto primato di necessità attribuendosi il valore di una nuova epica o, all’opposto, rimasticando cascami neoneoavanguardisti che avrebbero bisogno di dosi farmacologiche più massicce e possibilmente non omeopatiche). 
Ratliff ci mostra lo stesso Rollins rilassato che canticchia Fats Waller e si lascia sfuggire che una sua canzone “evoca tutta la scena di Harlem”, per poi dire a proposito di Charlie Parker che la sua “concezione ritmica era veramente una cosa dell’altro mondo”. Questo genere di conversazione permettendo ai musicisti di uscire dalle secche della critica, lascia emergere una serie di concezioni più interne al sentire dell’artista. Impressiona per esempio come spesso ritorni il concetto di storia, del singolo brano costruito come un racconto - attitudine che sarebbe nella musica di Louis Armstrong secondo Ornette Coleman, o in Lester Young ancora secondo Rollins. Coleman offre molte suggestioni culturali (non a caso ha ispirato un personaggio di Thomas Pynchon in V), laddove in Pat Metheny troviamo il concetto di collante, per cui il senso della musica, di un “brano” è visto nella sua capacità di costruire una sintassi, ossia, ancora una volta, una storia. 
E il racconto torna in fondo nella stessa scrittura di questo libro. Ratliffe è abile infatti nel passare dalla descrizione della scena in cui si svolge la conversazione, comprensiva spesso di un ritratto fisico, di una segnaletica della gestualità, del portamento, del modo di vestire, all’inserto biografico riassuntivo di una carriera - o ancora all’intervallo aneddotico dislocato attraverso veri e propri artifizi narrativi in altri contesti temporali: e tutto questo fa assomigliare il libro a una raccolta di short stories.
Completa il volume – fra gli altri anche Paul Motian, Bebo Valdés, Maria Schneider… - un’appendice di ascolti consigliati.

Michele Lupo






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