19 ott 2010

Carlo D'Amicis




La battuta perfetta
Il romanzo definitivo sul modo in cui la televisione ha costruito gli ultimi cinquant’anni di storia italiana. E’ stato letto così, il libro di Carlo D’Amicis, racconto rapsodico di un narratore quarantenne, Canio Spinato, cinico fan di Forza Italia e persino amico del Cumenda, uomo che la televisione ce l’ha scritta nel sangue praticamente da piccolo, prima che il suo stesso padre grazie al partito diventi un bigotto funzionario Rai, di quelli che la democristiana tv pedagogica degli inizi intendevano esattamente come intendevano la scuola pubblica (fiducia nella probità del sapere purché servile, alfabetizzazione di massa in funzione di una convenzionale e sterile rispettabilità sociale, onorabilità dell’ordine costituito, decoro del comportamento e rispetto formalistico del galateo, etc).

Quando nel profondo sud lucano arriva la tv, negli stessi giorni in cui Pasolini vi sta girando il suo Vangelo e proprio nella casa dei due Spinato, il figlio ragazzino e fescennino ne intuisce subito non solo il portato ludico, ma, visto col senno del poi, il suo destino di “gioiosa macchina da guerra” pronta a fare a pezzi – ridendo e scherzando, va da sé – il concetto stesso di realtà così come gli uomini si sono abituati a pensarlo per secoli. La riduzione della vita a inane e ridicolo show troverà in lui infatti un attivista entusiasta, per inclinazione naturale e precipua convinzione teorica, in opposizione alla funerea, seriosa tristezza paterna (che grava in effetti sul personaggio così pesantemente da rischiare l’iperbole).
Il figlio nasce insomma nel mondo giusto al momento giusto, adattissimo al futuro che verrà e che quelli come lui contribuiscono a modellare: è nato per piacere, lui, e ci riesce benissimo. Sa come far ridere e ne fa uno scopo nella vita – l’unico. Il suo berlusconismo precede la famigerata “discesa in campo”, l’amicizia con l’eponima farsa tragica che la segna, inevitabile. Né stupisce che chiamerà Silvio suo figlio; ma sarà proprio lui la nemesi che gli farà sudare per il resto della vita la ricerca della “battuta perfetta” che lo faccia amare. La pregnanza con la trama del presente è di tutta evidenza – le battute di Spinato sono spesso migliori di quelle oggi in voga, questo va detto.
D’Amicis ha scritto un bel libro. E’ un bravissimo scrittore che mi sembra in potenza un grande scrittore – uno dei migliori in Italia. Il punto decisivo, a mio avviso, sta in una domanda: quanto gli interessa narrare? La sua lingua (capace di passare da un tono all’altro, da un registo all’altro con grande abilità) è così densamente espressiva, così costantemente e mirabilmente tesa verso la determinazione esatta di stati d’animo, condizioni psicologiche etc da raggiungere spesso vertici di definitezza ammirevoli; peccato però che gli prenda la mano, che si acclimati a volte in una “letteratitudine” compiaciuta, così al racconto capita di perdere ritmo o naufragare nel frammento o ancora, più spesso, d’esser tirato via in fretta, passando da un fatto, un momento o un ambiente all’altro per troppo libera associazione – ancorché veritiera nella similitudine, nell’analogia, nella corrispondenza.
Uso termini di scuola, ché mi sembrano indicativi della forza e della debolezza insieme di questo lavoro: l’acribia linguistica è degna a volte della migliore poesia, ma lo sforzo mi sembra pagato dalla tensione narrativa, che a volte viene perduta (basterebbe constatare l’uso eccessivo dell’imperfetto). Inoltre, tende a spiegare troppo spesso ciò che le scene potrebbero limitarsi a mostrare; anche lo splendido dialetto dei dialoghi, a mio avviso, potrebbe fare a meno della traduzione che quasi sempre segue fra parentesi. Quando D’Amicis dà maggiore corpo alle scene e vi si abbandona, vien voglia di applaudirlo, ché sollecita cuore e intelligenza insieme, emoziona, diverte. E vai a rileggerlo. Perché ti dice il presente e il passato prossimo italiani come pochi.



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