23 set 2010

Maeve Brennan, una vera grande del Novecento.








Personaggi non proprio sani, d’accordo, enigmatici e fragili, ambienti malagevoli, idiosincrasie dai tratti qua e là forse troppo irlandesi: quelle narrate dalla straordinaria Meave Brennan sono però affezioni che nella descrizione esatta dei dettagli, nel continuum di una prosa incessante che colloca lo sguardo dentro e fuori i personaggi alternandolo con mirabile maestria, risultano vivissime ahimé anche a latitudini inferiori, per esempio quella newyorkese in cui visse la scrittrice nativa di Dublino e quindi anche la nostra di italici lettori.
Sto parlando di un’autrice che conoscono in pochi ma che è una delle più grandi del Novecento. Entriamo subito nel vivo della scena e mettiamo insieme questo brano, tratto dal racconto eponimo della raccolta Il principio dell’amore, in sé quasi un romanzo:  “Nella voce di Polly aveva udito l’ostilità che l’aveva oppressa tutto il giorno, l’ostilità che emanava dalle strade cittadine(…), un’ostilità distante e incomprensibile che aveva sentito salire dal ponte (…), dai campi, dagli alberi (…) e anche dal cielo, sebbene fosse azzurro e bianco ed estivo”, con quest’altro, “Il suo repertorio era costituito da smorfie, strizzate d’occhi, cenni e gesti che indicavano, parodiandoli, allarme, timidezza, rabbia e pietà, oltre a una collezione di frasi sarcastiche o umoristiche che, quand’era giovane, aveva trovato utili.”
Da una parte una sonda sensibilissima s’affaccia spietata nel tremore emotivo del personaggio – una donna dalla vita infelice e morbosamente legata al fratello che se n’era fatta una legittima per conto suo –, dall’altra la voce narrante ce ne mostra il regesto di segni relazionali goffi e incagliati che sintetizzano visivamente il profilo della disgraziata. Provate a immaginare in questo ventaglio di possibilità quale campionario di tristezze umane possa sfoggiare un personaggio del genere. Ma senza leggerlo d’altronde non immaginereste quanta improntitudine sappia sfoderare nel perseguire un suo ideale di vita familistico, morboso, l’unico rifugio protettivo di un’inclinazione alla solitudine che è una costante dei personaggi della Brennan. Il presente e il passato in queste vite trascorrono senza interruzione o salto definitivo uno nell’altro, il secondo talvolta salvandosi nello spleen di una traccia aurorale non sai mai quanto verosimile ma di sicuro segnata come edenica solo perché affrancata dai rapporti umani. Spesso i personaggi della Brennan preferiscono la solitudine piuttosto che le relazioni travagliate – non sempre lo sanno, ma la grandezza della scrittrice sta anche in questa capacità di misurare al milligrammo le variazioni umorali, i silenzi, gli slittamenti di tono nei dialoghi.
Quando la leggi pare di vederla, Meave Brennan, la sua bellezza diafana, gli occhi vitrei e malinconici che trafiggono le vite dei suoi personaggi, umbratili e spigolosi, con un’incisione crudele.  Descritta dall’amico, collega e editor William Maxwell come una donna imprevedibile e sofisticata, bellissima, dotata di uno splendido humour, la Brennan lavorava al New Yorker; nelle sue recensioni spicca un non scontato entusiasmo per “Menzogna e sortilegio” di Elsa Morante. Scrisse poche cose, ma di esperta concentrazione espressiva, prima di perdersi nelle nebbie della psicosi – sola, va da sé.
Fu molto amata da altri scrittori, da Mavis Gallant a John Updike a Paula Fox. Nelle due raccolte di racconti e nel breve romanzo La visitatrice in cui consiste la sua opera, Brennan seppe tenere insieme un complicato amore per la vita – che sensibilità nella descrizione degli oggetti, che acutezza nel coglierne senza pedanteria la vividezza materica e la pregnanza simbolica! – con l’esercizio magistrale della verità, che è poi il vero fine ultimo della letteratura. Negli spazi claustrofobici delle sue storie – anche quando sono en plain air! – una sapiente mistagoga, troppo lucida anche per se stessa, ci conduce dentro un’avventura conoscitiva affascinante, sempre a un passo dall’adombrare verità indicibili – bastano personaggi ordinari, vite fuori dalla storia, ghiacciate in un’immobilità senza riscatto, banali angustie domestiche, dolori spesso soffocati e due frasi fulminanti per dirle. Questa è l’arte di Meave Brennan, forse troppo sensibile e lucida insieme per non soccombere alle allucinazioni della follia. Leggetela.



MEAVE BRENNAN

Il principio dell’amore

BUR – Scrittori Contemporanei Original 2006

Cerca nel blog