Filippo La Porta, nell’introduzione a un volumetto di
scrittori-insegnanti sulla scuola, Consiglio di Classe, uscito da poco per Ediesse, scrive che “Non si
ragiona abbastanza sul conflitto che si è formato tra la scuola e la società
(come si è andato configurando nell’ultimo decennio)”.
Ora, la maggioranza dei critici (lo dico in senso lato, visto che un
senso proprio oggi non si vede, includendovi nominalmente recensori, promoters di ex-terze pagine e via di seguito) è ben più
distratta di La Porta, al quale succede di entrare spesso nel vivo delle
discussioni culturali (e non do qui giudizi di merito), di recensire libri di
editori non di primo piano, insomma di essere attento. Epperò La Porta non sa
che invece quello da lui sottolineato è proprio il punto noto a tutti, a tutti
coloro che – ancora non burnout,
secondo la gentile espressione con cui si sta liquidando un’intera categoria
agli occhi del mondo – nella scuola ci lavorano con lucidità, e a tutti quelli
che non vi pensano solo quando incontrano in metropolitana un vecchio amico
sfigato preoccupato di non arrivare in ritardo mentre la dirigente di turno
aspetta di cazziarlo al cancello.
Lo scollamento, il conflitto come giustamente lo chiama La Porta, sono
talmente clamorosi che bisogna davvero essere distratti per non accorgersene –
e se la cultura italiana più che distratta è spensierata, il conflitto fra
scuola e società data molto più di un decennio. Personalmente, se mi è
consentito un riferimento autobiografico, ho visto la macchina
dell’annientamento al lavoro nella sua versione strutturale dalla fine degli
anni ottanta, lavorando in alcune scuole private, dove, prima del tracollo di
Tangentopoli, l’aziendalismo straccione già dettava legge – esentasse, in
totale allegria fiscale com’è ovvio – e mandava a puttane qualsiasi idea di
alfabetizzazione, di formazione, di educazione civile. Secondo il principio che
in questo paese viene considerato naturale: tu paghi e io ti promuovo. Ho
visto, negli stessi anni, sposare questo sistema anche nelle scuole cattoliche.
Suore e signore timorate di dio pronte a puntare il dito contro l’alunna cui si
proibiva di andare al bagno e sotto il broncio nascondeva il peccato di un’imprecazione
immaginabilissima ma trattenuta a denti stretti. Ho visto le stesse suore
promuovere la ragazzina al terzo magistrale nonostante non avesse fatto un tubo
tutto l’anno - per puro menefreghismo e disinteresse, alimentato dalla pochezza
culturale delle sue insegnanti e dalla stizza di fare solo quattro ore con il
sottoscritto, imboscato e avventizio docente di italiano ivi finito per una
serie non replicabile di accidenti. Il sottoscritto, lusingato
dall’apprezzamento, non ne fu commosso fino al punto di votare per la sua
promozione (e perciò stesso fu subito chiaro che la sua supplenza l’anno
successivo non si sarebbe ripetuta). Si dava il caso infatti che la ragazza in
questione fosse soltanto l’ultima di tre sorelle che un manager ancora ignaro
di rimanere incastrato dentro i giri troppo stretti delle mazzette (piena
Tangentopoli) aveva assicurato alle casse della madre superiora. Ho visto poco
dopo – al netto di immediati interessi economici e per motivi diversi – confermata
l’arrendevolezza di molti insegnanti, la faciloneria, in troppi casi l’ignoranza,
il senso di disfatta e quello di colpa per non essere all’altezza di Marta de
Filippi (o Maria, sarà uguale, no?)
Notavano fra gli altri alcuni anni fa Luc Boltanski o Serge Halimi che si era verificata
una perversa coincidenza fra pensiero libertario e liberismo aziendale. Oggi,
professori che ancora insistono sulle povere creature che non vanno mai
bocciate, secondo un pensiero antiautoritario che non ha più senso, non si
rendono conto che proseguono a scuola il dettato liberista (la cui versione
italiana è la peggiore in circolazione) dell’assenza di regole. Non è quello il
campo di battaglia contro le truppe che si nascondono dietro la Gelmini (che è
solo una mascotte) – non sono più i tempi dello Starnone d’antan: onore ai suoi vecchi libretti, ma adesso è davvero
tutta un’altra storia.
Caro La Porta, mica è secondario che la scuola sia diventata una faccenda
quasi solo di femmine, e non sempre delle migliori: la scuola non solo dà
stipendi da fame; la scuola allo stato attuale, invece di assumere quel
conflitto a schiena dritta tende a replicare il potere in forme edulcorate o
rassegnate. La femminilizzazione della scuola comporta (o implica?) una
sudditanza analoga a quella visibile fuori – “la Repubblica” perde la battaglia
sulle Noemi e il risveglio del “dibattito” femminile che si era affacciato qua
e là sembra già rientrato. Resta il vittimismo.
Se si è ancora convinti che il cambiamento passi dall’alfabetizzazione, se
davvero vogliamo farcene carico per riaccendere un’idea di futuro (fateci caso,
dopo anni che ci si è lamentati del contrario, adesso non possiamo nemmeno più
ironizzare sulla demagogia elettorale che infilava i giovani nella bocca di
qualsiasi stronzo smanioso di poltrone: i giovani sono spariti dal discorso
pubblico - fine della storia), be’, smettiamola con il vittimismo - altrimenti
ci saremo meritati il peggio. Se l’Italia delle persone colte, scrittori in
primis (cittadini che dovrebbero fabbricare
lingua prima di storie!, immaginario prima che colpi di scena!) non se ne rende
conto, tutto è perduto.
Per queste ragioni, in Consiglio di Classe gli scritti più interessanti sono quelli che deviano dal linguaggio
didattico-didascalico-pedagogistico. Come succede a Edoardo Albinati, per
esempio, che riprende il racconto della sua esperienza in carcere del romanzo Maggio
Selvaggio; è evidente che il modo in cui
cerca il contatto con i detenuti studenti non può prescindere, anche se lui per
pudore forse non lo direbbe, da un certo carisma. Bene, lasciando da parte il
prestanome Gelmini (assunta al ruolo come si fa con le reclute della guardia di
finanza – pescate in massa dai diplomifici) e con esso il massacro in atto a
opera di Publitalia, Confindustria e Santa Romana Chiesa, volgiamo lo sguardo a
sinistra. Non vedete nulla, d’accordo, però sappiate, non addetti ai lavori,
che il suo ectoplasma in questi anni ha lavorato da perfetto collaborazionista:
scelte concrete a parte, il carisma è stato guardato con sospetto, senza capire
nemmeno l’essenziale, ossia che imparo solo se vengo sedotto: lì scatta
l’emulazione, senza la cui spinta non c’è alcuna attività educativa. A forza di
osteggiarne il principio stesso, alla fine si sono fatti sedurre
dall’imbonitore per eccellenza. Un capolavoro. Inoltre, il carisma, e anche un
certo senso virile (nell’accezione leopardiana) della vita, imprescindibili
oggi che la scuola viene attaccata da tutte parti, non si può imparare per
decreto, né ricevere con un attestato in un corso tutta fuffa tenuto dal
pedagogista ammanicato con i partiti. I Vertecchi e i Maragliano, molto vicini
all’area diessina ulivista insomma al Partito Dolorante, non hanno fatto meno
danni di Tremonti. I tre articoli del critico de “il manifesto”, Massimo
Raffaeli, sebbene scritti una decina di anni fa, sono ancora utili per chi,
fuori della scuola, volesse farsene un’idea (panaziendalismo, pseudomeritocrazia in salsa berlingueriana etc). E
credo lo sappia bene il paesologo Franco Arminio che nel suo raccontino conia
per sé una nuova definizione: il maestro sabotatore. Arminio rifiuta sanamente
i triti e ritriti clichè pedagogistici degli ultimi infami decenni. Fategli
sentire il verbo “interagire” e vedete come reagisce.
Va da sé che la scuola dovrebbe mostrare ben altra forza per uscire
dall’angolo in cui l’hanno cacciata. Non la si dovrebbe lasciare a Mastrocola. Poiché
invece i tempi sono questi, alla Mastrocola le si riconosce persino lo status di scrittrice. Se la scuola la raccontiamo ai cani secondo
me c’è qualcosa che non va. Non bastano i libretti furbi alla Cotroneo sulle
frescacce raccontate ai bambini? Continuiamo a fregarcene della scuola, lettori
del Paradiso, e poi ci stuferemo anche di leggerci fra noi. Di scuola si sono
occupati tutti i grandi filosofi della storia. Ci sarà un motivo?
Leggete ciò che scrive l’ex maestro di strada Mario Rossi Doria. Vedete con
quale disincanto e presenza (avremo mica paura di un ossimoro?) prova a ricostruire
quotidianamente un filo fra scuola e mondo, ben sapendo che è una sfida
bellissima solo perché impossibile. Guardatelo mentre insegue le storie dei
nuovi flaneur, barbari e paradossali, letteralmente schizzati rispetto al
vagabondaggio culto de Baudelaire e
Benjamin. Guardate quanta vita si annida lì dentro.
Così, è certo un’esperienza importante quella di Eraldo Affinati, impegnato
nella “Città dei ragazzi”, scuola multietnica romana. Ma il suo breve scritto
svolge considerazioni un po’ generiche d’impianto pedagogistico sull’”originalità
indissolubile” di ogni studente e la necessità di valutarlo a partire da
questo: e non capisce Affinati che ciò può andare bene in quel contesto, o
nelle situazioni più difficili, ma oggi in Italia con ciò si rischia di rinunciare,
secondo l’imperante dogma dell’opinione, a qualsiasi standard linguistico e
formativo minimo, ossia a un vocabolario di conoscenze imprescindibili. La via
da lui indicata, se presa come un assoluto, fa il gioco delle mille scuole
diverse che atomizzano l’insegnamento in totale discrezionalità. A quel punto,
piantiamola di parlare di Costituzione, di significati condivisi. Se in ballo,
fra le altre cose, v’è anche la nuova dissonanza fra il mondo repubblicano,
laico, liberal-democratico dell’occidente europeo e le culture degli immigrati,
non bastano formule rassicuranti. Né fuori, né dentro la scuola. Altrimenti,
aboliamola, sul serio. Chi ha più mezzi per vendere la sua idea di mondo – per
venderti il suo mondo, sarà il padrone. Come sempre.