Chiedi alle nuvole chi sono
Besa Editrice
Pag 157 , Euro 13,00
Un’umanità entusiasta e accorta
insieme, eccitata e disincantata corre in queste pagine. Quello raccontato nel
romanzo di Giorgio Bona è un mondo lontano. Non solo perché vi si narra di
uomini e donne che nel teatro tele-metropolitano sembrano scomparsi ma perché è
il modo stesso, stile e tono, del narratore che cifra un indubbio sentimento
nostalgico, virile e apprensivo insieme, di rievocarlo ossia di farlo emergere
dal passato. Così è anche della lingua, impastata nella stessa terra che
racconta, “storie che devono molto ai racconti dei vecchi di famiglia”, secondo
le parole dell’autore.
Bona gli ridà vita con la chiara
intenzione di enucleare dai personaggi il cuore poetico del loro stare al
mondo: un senso di fedeltà ai luoghi cui appartengono - la Val Susa - anche quando se ne dipartono per terre
promesse – il Venezuela – che non le mantengono, all’ethos che la sostanzia che
consiste poi in una ruvida concretezza, una primaria partecipazione all’urgenza
materiale del vivere. Per cui non v’è contraddizione in quella nuda crudezza di
natura nell’oscillare fra un bucolico sentimento del tempo e la scabra
disillusione di piccoli eroi costretti a sfangare la vita ogni giorno.
Se la storia principia per piccoli
quadri lirici, scorci di paesaggio visti con la meraviglia di un ragazzino
attento ma innamorato della sua terra, ancora disposto a lasciarsene stregare,
ben presto assume le movenze di un western. Le peripezie si moltiplicano, le
occasioni per guadagnarsi il pane s’inventano e non tutto riesce a dovere – che
romanzo sarebbe se tutto andasse bene?
Ma la sgangheratezza del nonno e
del padre del narratore, impegnati soprattutto in avventure di contrabbando dai
risvolti comici e malinconici, non è quella dei pitocchi: ribalderia e affanno
del vivere qui si congiungono sì ma suggellati in uno stigma di decoro, di
dignità personale non negoziabili. Nella descrizione che ne fa l’autore tutto
ciò sembra stargli molto a cuore; lo stesso uso del dialetto piemontese in
funzione financo narrativa e non relegato a puro accidentale inserto,
traduzione di una mentalità, di un’orchestrazione sintattica della realtà ben
codificata intorno a una circoscritta ma solida compagine di intermittente
saggezza, tutto questo sembra fare del suo libro soprattutto un atto d’amore
per un’umanità di cui le statistiche odierne non sembrano avere contezza. La
dimensione del sogno, rivendicata dall’autore a mo’ di preludio al libro, è
nelle cose, nella stessa terra-personaggio, e perciò la lingua che la nomina si
acclimata in un accordo elegiaco, dall’andamento fortemente emotivo,
partecipato. Il che non impedisce al racconto di tradursi in vera e propria
avventura fra Val Susa e il confine francese. Il contrabbando è la strada più
spregiudicata, percorsa a rotta di collo - e sempre giocando al limite - da
questa famiglia di sodali inquieti e un po’ spacconi; fra sparatorie e salti
mortali di furgoni carichi di sigarette disperatamente decisi al grande colpo
della vita - e intervallati nel montaggio dalle sequenze infelici del
malriuscito viaggio del nonno in Venezuela - i fatti si susseguono a ritmo
sostenuto. E si concludono dov’erano cominciate, in una terra “carica di
stupore e meraviglia”.