Da
Céline a Morand, da London a Hrabal, la francesista Daria Galateria
colleziona ventiquattro brevi ritratti di scrittori colti in un
momento – a volte la vita intera – che precede o accompagna la
fatica dello scrivere per quella più prosaica del vivere, ossia nel
tragicomico travaglio dello scrittore che fuori della pagina deve
combattere per assicurarsi pane e companatico. Perché una costante
che emerge da queste mini-biografie è il disagio degli scrittori
nell’accettare l’idea di fare altro nella vita che non sia
scrivere. Diciamo subito che nonostante l’interesse del tema –
non so se un interesse da maniaci – il libro, forse per l’occasione
da cui è nato (una serie di trasmissioni radiofoniche), non sempre
brilla per verve e nel complesso si lascia leggere senza grandi
entusiasmi. A volte il tono da regesto inficia il resoconto di
biografie che immaginiamo piuttosto sapide - esemplare il caso del
ritratto dedicato a Céline.
Ci
saremmo aspettati dosi più massicce di humor nero, ingrediente che
nella vita degli scrittori alle prese con difficoltà materiali non
manca mai. Basti pensare ai casi di Svevo (prima impiegato in banca,
poi responsabile della ditta di vernici dei suoceri), o ancor più in
Kafka (una vita intera nel ramo assicurativo), nei quali è
interessante la contraddizione fra l’aspirazione a un’esistenza
votata interamente alla scrittura e la consapevolezza di doversi
aggrappare a qualcosa, a un’occupazione materiale che li tenesse
ancorati al banale regime delle preoccupazioni quotidiane, non tanto
per ragioni economiche quanto per sentirsi - gli veniva facile –
meno lontani da quella che potremmo definire, al netto di aggiornate
considerazioni postmoderne, “la realtà”. A Svevo bastava che gli
galleggiasse una frase nella mente per mandare in crisi la sua vita
pratica per una settimana, per farne quell’inetto che il suo primo
romanzo descrisse con l’implacabile ferocia del vero scrittore.
Kafka confida al giovane amico Janouch il sospetto che “il lavoro
manuale avvicina gli uomini”. Non stupisce il seguente paradossale
corollario: la tensione per uno scrittore è tale che fuori della
scrittura per molti di loro è meglio avvicinare la brutale fisicità
del lavoro corporale piuttosto che riempirsi la testa con altre
chiacchiere, idee o preoccupazioni di concetto. La testa di uno
scrittore, perché dia il meglio, deve svuotarsi, lasciare campo
aperto all’immaginazione, guadagnare vigore ed energia dallo
sgombro che deriva dal pieno del gesto fisico. Sempre che ve ne sia
stretta necessità: andare a chiedere a Jack London, costretto da
un’adolescenza infame a rubare ostriche nella baia di San
Francisco, a cacciare foche nell’Artico, ad accatastare carbone in
una centrale elettrica e molte altre cose ancora. La sera era
distrutto e la letteratura sembrava un miraggio. Però in seguito ci
lasciò alcuni racconti memorabili che non poco dovevano a quelle
esperienze. Mille lavori (e vita davvero avventurosa) anche per il
poeta svizzero naturalizzato francese Blaise Cendrars, prima della
serie sgobba e muori (fuochista anche lui, cacciatore di balene,
scaricatore nei mattatoi…) poi più consoni alla dimensione
espressiva (reporter, sceneggiatore, animatore di riviste culturali).
Proprio in area francese si dà il numero maggiore (fra quelli
compresi nel libro) di scrittori nella cui vita si è affacciata la
politica. Da Morand a Malraux alla Duras una certa urgenza
ideologica, o uno smaccato interesse per il potere – elementi tutti
non proprio proficui per la scrittura – sembra segnare
l’intellighenzia creativa francese del secolo scorso. Cosa
che non passava minimamente per la testa al grande Gadda, vessato da
una madre rigidissima che lo costrinse a prendersi una laurea in
ingegneria per la quale l’autore della Cognizione del dolore
non aveva interesse (checché ne abbiano detto critici smaniosi di
reperire sostegni tecnico-scientifici alla sua scrittura, che caso
mai si nutriva di suggestioni epistemologiche, desunte dall’interesse
per la filosofia, interesse non pacifico, problematico come tutto lo
era nella sua vita). Per Gadda, parte della fatica insita in un
mestiere, che fosse quello di ingegnere o di giornalista, era
già nel contatto coatto con i propri simili, che spesso faticava a
considerare tali; lo spazio agito della polis per lui sarebbe stato
un incubo. Laddove invece Ottiero Ottieri a modo suo lo indaga, quasi
lo provoca andandoselo a cercare nelle nervature materiali
dell’Italia industriale. Ma non fu una passeggiata, nemmeno per
lui.