22 ago 2011

L’Italia e i suoi padroni

Un articolo di quasi un anno fa, sempre dalle parti degli orchi

- vale la pena ricordarle certe cose



di Michele Lupo


Copertina
Dall’editore Aliberti arrivano di recente libri sulle malagevoli faccende dell’Italia presente, specie quella politica. Mi riferisco al lavoro della giornalista Elena G. Polidori, Berlusconi e la fabbrica del popolo, sulla grande macchina televisiva che ha trasformato l’Italia degli ultimi decenni, e a una biografia feroce di Umberto Bossi a opera di un ex militante leghista e giornalista della “Padania”, Leonardo Facco (Umberto Magno. La vera storia dell’imperatore della Padania). 
Se nel primo è mostrata un’aneddotica ricca e particolareggiata di interventi legati al giornalismo e all’intrattenimento (complimenti a chi riesce a distinguerli, innanizitutto), volti a modificare alla base il modo di pensare dell’homo italicus – che mai ha brillato per coscienza civile e democratica, bisogno di informarsi e partecipazione alla cosa pubblica se non per fotterla – nel secondo, non senza qualche sconcerto del lettore, Facco ci descrive la parabola del Bossi partendo da un assunto incredibile. Scrive infatti che solo a un certo punto egli ha cominciato a vedere nel leader del suo ex partito un tiranno che ne dispone(va) a suo piacimento. E prima? Mah.
Ne vien fuori a ogni modo il ritratto di un uomo capace di qualsiasi manovra e menzogna per controllarlo secondo i principi di una monarchia assoluta – o di un’azienda privata, visto che, emerge anche dal libro della Polidori, è chiaro che mai come oggi da noi il potere politico non rappresenta gli interessi mediati di quello economico ma coincide con essi.
Un “cialtrone”, Facco definisce il capo della Lega.
I capitoli in cui è diviso il libro enumerano una serie di falle, flop e voltafaccia che descrivono la storia politica di Bossi. Da una “Trota" da sistemare a diecimila euro al mese, scorrendo a ritroso le contraddizioni in materia di famiglia, al rapporto schizofrenico con la Chiesa di Roma (volta per volta proponendosi la Lega Nord come baluardo dei valori del cattolicesimo che non di rado ha fatto vestire a qualche militante esaltato i panni del Crociato fondamentalista o, viceversa, esibendosi quale partito di avversari duri e puri del potere vaticano in territorio italiano), dal razzismo che a detta dell’autore prima non era una caratteristica fondante (mah…), alle lottizzazioni di stampo democristiano, "la vera storia dell'imperatore della Padania" diventa una carrellata di tradimenti in cui l’”imperatore” si sarebbe rimangiato il giacobinismo, il secessionismo, il liberismo e tutte le altre parole d’ordine che gli erano servite a suo tempo per conquistare il consenso di qualche milione di persone. Ed è questo che più sembra bruciare all’autore del libro.
“Bossi – dice Flacco – è il responsabile principale della trasformazione della Lega in un soggetto politico partitocratico, dove agli scandali si uniscono le truffe perpetrate ai danni dei militanti e dei simpatizzanti”. L’interesse esclusivo di Bossi per il proprio potere insomma avrebbe sottratto alla Lega l’ipotetica spinta ideale degli inizi senza peraltro assicurargli tutti i vantaggi materiali del caso. “Umberto Bossi, considerato un grande stratega, tra i maggiori protagonisti della politica nazionale, amato e odiato come tutti i personaggi importanti della società, per molti leghisti è diventato un mito, ma per gli affari non è tagliato: tutte le idee elaborate da lui, all'atto della realizzazione si sono tramutate in fallimenti, con perdite di denaro non solo per il partito, ma anche di chi in buona fede gli ha creduto” (che gli italiani si scelgano certi miti è sconfortante, no? Poi cosa pretendiamo dalla letteratura, miracoli? ancora?)
Un potere che sì è infiltrato anche nelle televisioni, la stessa Rai molto vituperata, per lo spazio che ha potuto concedergli Berlusconi, la cui corte è ovviamente più vasta (il Paese, più o meno). Sulla sua fabbrica “culturale” di giornalisti, attori, “ballerine”, registi, calciatori, ha costruito il potere che sappiamo e puntigliosamente descrive la giornalista Elena G. Polidori inBerlusconi e la fabbrica del popolo dello stesso editore. Prima ancora che il porcello di Arcore introducesse la strabiliante variante ai propositi minacciosi del duce di Predappio, in virtù della quale il parlamento veniva trasformato nell’odierno “bivacco di manipoli e mignotte” aveva lavorato alle strutture profonde del cittadino trasformato in telespettatore (cervelli ridotti a cavee di spappolate inservibili poltiglie). Per descrivere il libro valgano le parole di Peter Gomez nella prefazione: “Polidori ci racconta, e dimostra, come negli ultimi dieci anni la televisione sia stata scientificamente utilizzata per tentare di costruire una nuova coscienza collettiva sempre più al servizio di un'unica opinione. E come per raggiungere questo obiettivo non si sia puntato solo sull'informazione, ma (soprattutto) sulle fiction e l'entertainment. [...] Per un'ampia fetta di cittadini il modello del tronista e della velina è risultato vincente. A furia di reality show, in molti si sono convinti che nella vita sia davvero possibile avere successo senza saper dare niente. Non serve saper ballare, saper cantare, aver studiato recitazione o dizione: per andare avanti basta bucare il video e, semmai, sotto le lenzuola fare qualcos'altro. E quei molti, come è ovvio e giusto, votano.” Ovvio e giusto?

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