Utilizzare il paradigma gramsciano dell’egemonia per
parlare del presente, scavare nell’immondizia che ci sommerge sino al collo e
piantarla di ritenerla accidentale, come fosse roba d’altri, ma assumerla come
il paesaggio terrificante che è, per realizzare che o si prova a spazzarlo via
o sono cazzi non per noi che siamo già andati ma per i nostri figli che se la
vedranno con la prole delle Ventura o col pesciolino boccheggiante allevato in
casa Bossi.
E’ quello che prova a fare in un libro recente (L’egemonia
sottoculturale – L’Italia da Gramsci al gossip,
per Einaudi), Massimiliano Panarari, che riprende Gramsci per ridefinire
lucidamente lo stato delle cose (sebbene con qualche indulgenza di troppo qua e
là, un riguardo civettuolo per certi figuri che Berlusconi ha messo a capo del
killeraggio gossipparo, quasi a testimoniare per paradosso la bontà inconclusa
del concetto di egemonia).
Uno degli spunti a mio avviso più interessanti del libro,
anche se qui più registrato empiricamente che analizzato nei nessi causali, e
sul quale la sinistra che ancora si considera critica farebbe bene a
riflettere, è la paradossale convergenza di cui già parlammo mesi fa fra certa ispirazione
libertaria e “anarchiste” e la svolta destrorsa dell’ultimo quarto di secolo (en
passant, smettiamola con l’ipocrisia e
diciamolo: il crollo del muro di Berlino per l’Occidente è stata una vera
sciagura!). Perché se molti odierni funzionari dell’ideologia egemone (per tornare
alla koiné gramsciana), ossia gli staffieri dello spettacolo e
dell’informazione – o in non casuale sintesi, dell’infotainment – provengono da ambienti situazionisti (Antonio
Ricci, per es.), il disegno, consapevole o no, che sta alla base della loro
azione, e quindi della deriva del continente occidentale (e inevitabile
terremoto già in atto nelle zolle asiatiche che cominciano a sentire gli
effetti dello scontro) nasce per Panarari (ma è un’opinione piuttosto diffusa) nella
destra americana degli ultimi decenni e poi nelle oligarchie che si sono
impadronite del pianeta con la precisa intenzione di far collassare le
conquiste sociali di filiazione illuministica che sono la faccia migliore del
fu Secolo Breve.
Allo scopo l’egemonia (sotto)culturale ha costruito il
foucaultiano “a priori” psichico necessario al progetto: dealfabetizzando masse
sterminate di deficienti, addestrando milioni di umani alla “servitù volontaria”
che il grande La Boetié aveva diagnosticato come precipua patologia della
specie – gli altri animali per lo più quando subiscono una costrizione cercano
di ribellarvisi – attraverso il panopticum
dello spettacolo. L’instrumentum regni, ossia il divertimentismo, lo spettacolo infinito (che ha soppiantato l’infinito
letterario di Blanchot), l’illusione
edonistica di un piacere realizzato e sempre a portata di mano, abbisognano di
una strategia che mirando nei fatti a una micidiale involuzione autoritaria
(parliamo dei reali rapporti di potere: ripercorrere Marx, please, e prendersi il buono che c’è) si realizza
attraverso dosi così massicce di ignoranza programmatica che chi ne sta fuori –
chi si affanna per salvarsi – finisce per risplendere agli occhi altrui, dei più,
in tutta la sua fulgida coglionaggine. Paradosso solo apparente perché
l’egemonia non ha ancora finito il suo lavoro se chi ne sta fuori non finisce
con il sentirsi inadeguato, persino in colpa – altrimenti, che egemonia
sarebbe?
Nella fattispecie italiana, videocrazia all’avanguardia
nel mondo, quello che abbiamo visto in questi anni sul versante culturale è
stato, più o meno nell’ordine: incomprensione e sottovalutazione del cataclisma,
illusione di una sua perifericità, stordimento timoroso e infine, quando
l’inferno aveva piallato l’orizzonte, goffo tentativo di rincorrerlo (vedi il
coté politico, Bersani che dice ai suoi elettori di non snobbare Rete 4!); e
non ultimo, snobismo di riporto di chi si è creduto spiritoso e con allegra
disposizione d’animo si vanta della consuetudine con il pattume videocratico. Qui
per pietà nomi di scrittori non ne faccio, che al Paradiso siamo stufi di
dargli importanza. Basti ricordare quanti danni ha fatto il fine Angelo
Guglielmi direttore di rete con il suo orrore per una tivù pedagogica, come se
dovesse significare tornare a Bernabei, come se da quel lato fosse possibile
solo la famiglia Angela. Il mantra dello spocchioso critico, qualcuno lo
ricorderà, era: “La televisione è un linguaggio”. Uno statuto ontologico,
niente di meno. E perciò indiscutibile. Stiamo qui a goderci il risultato di
trent’anni di questa metafisica.
Quanto poi il giornalismo (ossia un genere
ufficialmente ancora separato dallo spettacolo solo perché in questo caso il
pudore assicura una maggiore efficacia) abbia contribuito a questo splendido
stato di salute, il libro di Panarari lo ricorda attraverso i casi umani che
portano i nomi di Vespa o Signorini, le declinazioni cabarettistiche di ”Porta
a Porta” o quelle trash del gossip, ma, stante che lo spettacolo si è mangiato
l’informazione (e già che oggi ci
siamo con i consigli, i più giovani che non lo conoscono farebbero bene a
leggersi Guy Debord: la deriva totalitaria dello spettacolo era stata letta e prevista
mezzo secolo fa) sarebbe urgente vedere dentro il buco nero della crassa ignoranza
ivi fabbricata. Il servizio militare permanente prestato dai Minchiolini in
difesa del padrone e dei suoi accoliti (come il futuro dottore in Scienze della
Comunicazione Bossi Umberto, leader di un partito nazistoide declinato in chiave burina e
dialettale, gratificato dalla mascotte brianzola Mariastella per la sua
maestria semiotica, specie il mirabile dito alzato ai giornalisti – che se lo
meritano – nonostante la cinesica frenata dal coccolone di qualche anno fa), la
guerra ininterrotta delle troie di regime, dicevo, si avvale di falsificazioni
sistematiche, omissioni, storture logiche (chi è più in grado di capirle?), interpretazioni
truffaldine passate per oggettività, zoomate sacramentali sul nulla dei Casini
Capezzoni Rotondi, esercitazioni sulla moda dei cagnolini da passeggio, le
vacanze di Bonolis (che non ne vuol sapere di tirare le cuoia), le ultime sulla
liposuzione delle grandi labbra traboccanti e via coglionando. Il paese si
de-costruisce così, azzerando quel po’ di buono che fa la scuola quando lo fa:
vedi i recenti coccodrilli dedicati a Cossiga, vedi la signora Palombelli che
quando difende la televisione di merda nella quale sguazza con pose da
intellettualina “alla mano” osa utilizzare la nozione di nazionalpopolare
fingendo di dimenticare (o forse davvero non lo sa) che nel pensatore sardo
ucciso dal fascismo quella era una via per costruire un’alternativa, come usava
dire, al pensiero dominante. Il nazionalpopolare avrebbe dovuto essere, nelle
sue intenzioni, la lingua capace di preparare una dissidenza culturale rispetto
all’egemonia capitalista (personalmente non mi ha mai convinto, ma questo è un
altro discorso). La struttura eroicomica della mitologia gossippara invece
allestisce l’Olimpo odierno in perfetta sintonia con l’ideologia liberista,
anzi agendo come suo fattore propulsivo (se v’imbattete in qualcuno che ancora
ripete la cazzata della “fine delle ideologie” fate come il maestro zen con il
discepolo duro di comprendonio: dategli uno sganassone sul collo).
E si avvale dicevo anche di nuova prassi scolastica, occultata
anch’essa ma non troppo, costruendosi un’egemonia attraverso l’emulazione di
modelli didattici di base: al posto di Gentile teniamo la moglie di Maurizio
Costanzo. I suoi ragazzi teneri e dolci e determinatissimi. Chiappe al vento
perché c’è sempre il Vaticano che ci guarda e si sa, i guardoni proliferano fra
i guardoni.