12 feb 2013

Morton Feldman

 http://www.youtube.com/watch?v=UuAD0J9weQM
 


Libro prezioso, i Pensieri Verticali di Morton Feldman (Adelphi). E chi è, direte voi? Già, provate a postare brani della sua musica su Facebook, dove magari avete duemila contatti, almeno metà dei quali di persone interessate chessò all’arte, ai buoni libri, al cinema, e metà della metà – almeno – che vivono professionalmente di attività culturali. Nella bacheca dello scrivente il povero Feldman potrà contare su un paio di “mi piace” a fronte di una decina di giorni di inserimenti incessanti. Ammesso che qualcuno si faccia venire la curiosità di sapere di che cosa si tratta, troverà probabilmente la musica di Feldman (1923-1987)– chissà - troppo sommessa, uguale a se stessa (lo pensa, che a volte si sia ripetuto il geniale americano, anche un intenditore senza paragoni come il maestro Mario Bortolotto che scrive una postfazione al libro).
Il fatto è che nel rovesciamento delle gerarchie classiche del linguaggio musicale, il musicista americano sottrae il primato all’altezza delle note e alla loro durata in favore della dinamica, dell’intensità e del timbro (semplifichiamo assai: i più interessati possono leggersi uno studio di Marco Lenzi sull’argomento). Una musica che è dunque innanzitutto concentrata sul suono, che spesso costeggia il silenzio, che rivoluziona il concetto di tempo.
Pensieri Verticali attraverso una serie di piccoli brevi testi e interviste ci immette in questo mondo come meglio non si potrebbe. Il musicista si chiede cosa ne sarebbe stato della sua opera senza l’incoraggiamento di John Cage. E addirittura si domanda che cosa ne sarebbe stato della sua vita senza Edgar Varèse (nella cui musica “il suono forma i propri piani (…) e con slancio non rimane nessun suono, nessun nota, nessun sentimento”). Perché se dal primo apprende – fra le altre cose – a seguire il suo istinto, o quanto possa un musicista imparare dalla pittura astratta (“Il mio interesse per la superficie è il tema della mia musica. In questo senso le mie composizioni non sono affatto 'composizioni'. Si potrebbe paragonarle a una tela temporale”) dal secondo l’autore del meraviglioso Rothko Chapel ruba persino “uno stile (…) un modo di stare al mondo”.
Piace l’agilità, la sferzante disinvoltura con cui Feldman – non primo di humour - liquida la musica che non ama. Sarcastico verso Boulez, “una caricatura del nostro tempo”, verso la noiosa avanguardia di Darmstadt (questi “enfants terribles di mezza età”) e la scuola dodecafonica degli inizi salvando e in parte solo Webern: vi legge i modi di un accademismo pedestre, una tecnica di calcolo anche nella versione dell’alea (cui pure è interessato).
Feldman peraltro non si ferma a Cage né a una mera poetica dell’indeterminazione. E anche la formula dell’“espressionismo astratto” non ne riassume interamente la cospicua produzione. Scrollandosi di dosso un po’ di pigrizia, il pubblico della musica potrebbe scoprire che quella di Feldman è anche emotivamente ricchissima; ossia, a prescindere dalla comprensione del suo linguaggio, intensa e sensibile alle mere ragioni di un ascolto tutt’altro che cerebrale. “L'arte è un'operazione cruciale e pericolosa che eseguiamo su noi stessi. Se non rischiamo, coma artisti siamo morti.” E se anche come lettori e ascoltatori rischiassimo un po’ di più?

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