Della scuola agli
intellettuali italiani non frega nulla.
Agli scrittori che si
lamentano dei mediocri dati di vendita potrebbero tornare utili quelli di
Tullio De Mauro sull’analfabetismo gigantesco che sommerge ormai questo paese
disgraziato e sempre più ridicolo. Forse capirebbero anche loro che se un
lettore curioso sarà difficile farlo uscire da una scuola mediocre, col
collasso in corso potrebbe diventare problematico persino sfornare un adulto in
grado di apporre un cartoncino con come e cognome sul portone del condominio.
Fatta eccezione per i
soliti casi costruiti ad arte, di libri se ne vendono pochi, ma a nessuno viene
in mente di spostare l’attenzione sui codici cognitivi e linguistici di base
indispensabili allo stesso gesto del leggere – e non parliamo dell’immaginario,
ormai sfranto sul presente orrifico dei reality (che siano targati Ventura o
Noemi cambia poco), che non a caso alcuni degli scrittori italiani dicono anche
di apprezzare, non come lo fanno i cagnacci travestiti da fighetti alla Carlo
Rossella che li spacciano per il nuovo neorealismo italiano – con il che
dicendo solo la loro pochezza, intellettuale se ci credono davvero, morale se
pigliano per il culo il popolino (che d’altra parte sarebbe anche ora di dire
che ‘ste valanghe di merda se le va a cercare: non siamo mica nel ’45, non
veniamo mica da una guerra, non siamo mica più un popolo di contadini!).
No, gli scrittori
italiani che si vogliono disinvolti discettano con allegra partecipazione sui
minus habentes in digitale pur di scavarsi una nicchia di presentabilità
mondana, pur di essere un nome che circola se non sui rotocalchi che nella
sbandata collettiva si chiamano culturali almeno in qualche appendice giornalistico-marchettara
in zona rai.
Agli intellettuali
italiani, agli scrittori in particolare, è parso disdicevole, poco elegante
occuparsi di scuola. Se ne sono tenuti alla larga. Non si fa bella figura a
ragionarvi sopra. Sa, come dire, di scolastico…
Esclusi gli
scrittori-insegnanti che non sono mai mancati, gli altri hanno preferito
evitare il lezzo stantio dell’indigenza, la micragna del patetismo che pervade
i discorsi intorno alla scuola. Ragionano, quando lo fanno, sull’apocalisse in
corso e non gli viene in mente di farsi due domande sull’alfabetizzazione
strutturale con cui si manifattura il sapere minimo di un paese; molto più
interessante, ovvio, seguire i linguaggi della spettacolarizzazione di massa,
il più delle volte depauperando la stessa letteratura che non può reggere certi
confronti perché, semplicemente, non ne ha bisogno – sempre che letteratura lo
sia per davvero. Chi riesce a campare con la vendita dei propri libri, se viene
fortuitamente visitato dall’immagine di una classe di bambocci o peggio, di
bulletti, ringrazia il padreterno (che non ci ha mai fatto il piacere di
esserci quando ci serviva), di averlo salvato dalla iattura.
Se non fotte niente
agli intellettuali, figurarsi agli italiani “medi”: popolino di cialtroni cui
basta un po’ di sesso, una macchina, molto calcio e tagliatelle. Per essere
felice? No, per abbrutirsi illudendosi di vivere. E che cosa sarà mai la
scuola, per un italiano mediamente ignorante, un soggetto il cui massimo
contributo alla polis è dato – e se ne potrebbe fare a meno – in quella
parodistica caverna che è la cabina elettorale? Non capendo il valore della
formazione, non avendo idea della medesima fuori dalla propria squadra – non
sempre la nazionale, perché non ci sono abbastanza giocatori dell’Inter o della
Roma – dal loro punto di vista ciò che può venire dalla scuola è un goffo
repertorio di nozioni che possono agevolmente apprendersi davanti alla tv –
giustamente, rebus sic stantibus, non si capisce cosa aspettano a chiuderle del tutto.
Talché, con l’ultima
finanziaria il colpo di scure sulla scuola pubblica fa davvero male. Non starò
qui ad aggiungere dati perché si possono agevolmente reperire in rete - per chi
ne avesse voglia, appunto.
Preferirei riportare
alcune righe dalle lucidissime pagine di Piero Calamandrei, giurista
antifascista del Partito d’Azione (quanti sanno in Italia che cosa è stato
questo partito?), comprese nel volumetto Sellerio Per la scuola; si riuniscono qui tre interventi
sull’argomento pensati fra il 1946 e il 1950. Due sono pubblici discorsi, un
terzo apparve sulla rivista “Il Ponte”. Sono preceduti da un’introduzione di
Tullio De Mauro, esemplare per chiarezza e sintesi (peccato che alla lunga e
meritoria attività di studioso De Mauro abbia accompagnato scelte per l’appunto
politico-culturali molto discutibili, dall’incarico sbiadito di Ministro nel
tardo governo Prodi ’99-2000, obbediente ai dettami di partito, alla Direzione
Bellonci per il Premio Strega, macchina letale dell’odierno governo
editoriale). Per dare un’idea dell’acutezza di Calamandrei: “Facciamo
l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito
dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione*, non la
vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula
in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata
dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per
trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole
di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in
quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il
partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica,
intendiamoci)*.
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad
impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private.
Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed
allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di
denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a
queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E
magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a
quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle
scuole pubbliche alle scuole private. A ‘quelle’ scuole private. Gli esami sono
più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa
una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare
apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole
di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.”
Ora, cosa ne viene
fuori, non c’è bisogno che lo aggiunga io. Uno scrittore – dico uno scrittore
vero, non un corrivo intrattenitore - che pensa di costruirsi un pubblico in
uno spazio sociale, linguistico fabbricato ad arte da governanti che sognano un
dominio costante attraverso la messa a punto di un’imbecillità di massa, uno
scrittore così è uno sprovveduto. Verrebbe da pensare che molti scrittori
italiani lo siano se non si accorgono che al mondo prefigurato da Calamandrei
qualcuno sta già lavorando alacremente.
- *Sono solo due dei punti
in cui l’analisi di Calamandrei mi è parsa ottimistica.
Michele Lupo