Ci vollero un po’ di minuti, dieci, forse venti. Poi Livio
prese il telecomando dello stereo dalla pila di libri che usava per comodino,
accese il cd e si ridistese sul letto, nudo accanto a lei, semivestita. In
posizione supina tutti e due. Fu allora che successe, dentro una specie di
animistica requie il fiato di Giulia si aprì in una corolla di aromi - il suo
corpo aveva la capacità di orchestrare una scenografia olfattiva irresistibile
–, fu come se la sua voce si trasfigurasse in un’ altra, un tono incantatorio,
un suono che sembrava sorgere da un alito arcano, lontano, era la voce di
Parveen Sultana, raga da ultima notte, ultimo cielo, primo e ultimo... L’alap,
al solito, era iniziato lento, come un cerchio avvolgente, sulla filigrana
densa del tampura, do, re bemolle, mi bemolle, e poi di nuovo la tonica, e fu lì
che si aprì la voce, su quel bordone primordiale che stava prima dell’
universo, che inglobava tutti i suoni dell’universo, e quando la voce si levò
verso il sol ecco le tabla, a inventare un tempo, una scansione di tempo, e
poi, inavvertitamente, una progressione, lenta ma incessante, e pian piano un
po’ più veloce. Livio sentì soltanto il respiro, di Giulia, il sollevarsi del
suo seno, quel corpo consegnato a se stesso, solo alla verità di quel momento lì...
e fu uno scarto ritmico improvviso quello che gli fece posare con una
naturalezza rubata al volo ai santi indù una mano sulle sue gambe, era il passo
di danza di Shiva e Parvati, fa diesis e sol, il bottone della camicetta che
saltò via da solo, come se le intenzioni degli umani e degli dei per una volta
coincidessero alla perfezione, nella giustezza del tempo quand’ esso è puro,
ignaro del fardello di ieri come dell’ansia di domani, fin lì si era sporta la
voce, lo capì mordicchiandole i capezzoli, prima, e poi il ventre, fin lì lo
aveva portato, su quella peluria umida e nera, ecco cos’era, attraverso quella
voce sprofondava fin dentro l’origine del mondo, ora lo
riconosceva, il quadro, lì davanti a lui, identico come l’avverarsi di una
profezia, la stupefacente cava di carni, la chiusura del cerchio, il dittico
cruciale, la torsione simmetrica aperta dalla magnifica schiena si avvolgeva e
chiudeva infine nella rivelazione del dipinto di Courbet, microstoria dell’arte
riepilogata nel corpo di Giulia Armena e tramata nell’ ipotalamo di Livio Viola
per produrre ossitocina, ossia replicare l’unico portento della sua vita,
indurire la verga...
... oh quanta improvvida tristezza amore mio - e non fu esattamente un
pensiero, ma un asfodelo di luce che gli brillò nell’iride mentre cominciava a
strofinarle la lingua sulla fica - lo senti il respiro di questi corpi che sono
tutta la nostra vita, ora… lo senti... le diceva senza parlare, commosso da
quel piccolo incendio di rimpianti bruciati come steli d’insensatezza, lui che
non poteva seguirne le ombre in quel fato librato in spazi siderei solo per lei
in quanto lontanissimi da lui che sapeva solo stare in ginocchio, lì, sulla
terra... appiccicato a lei, accovacciato dentro l’origine del mondo...
... ave maria mia, Giulia e sultana...